Articolo di Romano Prodi u Il Messaggero del 18 giugno 2018
Tra le tante guerre dimenticate che hanno insanguinato il mondo nella recente storia ce n’è una che noi italiani non avremmo mai dovuto dimenticare: il sanguinoso conflitto fra Eritrea ed Etiopia.
Tra il 1998 e il 2000 vi sono stati quasi centomila morti per una disputa territoriale sul così detto corridoio di Badme, un territorio di nessuna importanza perché limitato in estensione e quasi deserto. Una delle tipiche guerre spinte da motivi di politica interna, una guerra condotta da due leader membri della stessa tribù dei “Tigrini”, due leader che avevano combattuto assieme la lotta di liberazione e che, almeno nell’immagine popolare, erano addirittura ritenuti tra di loro cugini. Una guerra che, pur non essendosi da allora ripetuti episodi altrettanto sanguinosi, non si è mai trasformata in pace, anche perché l’Etiopia si è sempre rifiutata di accettare le decisioni di un arbitrato internazionale (il così detto accordo di Algeri) che, nel 2002, assegnava il controverso territorio di Badme alla sovranità dell’Eritrea.
I sacrifici umani e le tremende spese militari di questo conflitto hanno gravemente colpito i due paesi e soprattutto l’Eritrea che, con i sei milioni di abitanti, si è trovata a combattere contro un paese che ne conta cento milioni.
Per anni ogni tentativo di pacificazione è risultato vano ed io stesso posso testimoniare come, nonostante ripetuti e ben accetti miei tentativi di dialogo, sia stato tremendamente difficile aprire un vero e proprio processo di pace. Dopo i numerosi e franchi incontri che ho amichevolmente e ripetutamente avuto con i due leader facendo la spola tra l’Asmara e Addis Abeba, sono stato costretto a constatare che il fossato fra il Presidente eritreo Isaias Afewerki e il Primo Ministro etiope Meles Zenawi era ancora troppo profondo per essere colmato in breve tempo. La prematura morte di Meles ha reso il tutto ancora più difficile dato che il suo successore non aveva la forza per condurre i politici etiopi verso un processo di pace.
Il primo evento (incredibilmente passato sotto silenzio in Italia ) è avvenuto nello scorso marzo quando l’Unesco ha proclamato l’Asmara patrimonio dell’Umanità. Una decisione che avrebbe dovuto accendere la nostra attenzione e il nostro entusiasmo perché la capitale dell’Eritrea è ancora oggi la città più italiana di tutte le città italiane. Fino all’inizio della seconda guerra mondiale gli oltre cinquantamila italiani residenti all’Asmara hanno infatti completamente ridisegnato la città secondo le nostre forme architettoniche. Il conseguente isolamento del paese le ha rigorosamente conservate tali e quali. A l’Asmara si respira ancora l’aria di un’Italia di ottant’anni fa: la farmacia Dante, l’albergo Bologna, la palazzina Fiat, le vecchie non più funzionanti “Littorine” e il Circolo degli Italiani, dove purtroppo (anche per la nostra trascuratezza) l’italiano è parlato solo dagli ultra settantenni.
Questa dichiarazione dell’Unesco potrebbe anche sembrare di scarsa importanza ma ha portato, attraverso la cultura e la bellezza, l’Eritrea più vicina alla comunità internazionale ed ha costituito il primo passo di un disgelo che ha poi assunto una velocità inaspettata.
Le elezioni dello scorso Aprile in Etiopia hanno infatti segnato la vittoria del primo ministro Abiy Ahmed, non più tigrino ma della tribù degli Oromo, la più numerosa ma fino ad ora del tutto emarginata dal potere politico. Già nel discorso di insediamento Ahmed aveva non solo espresso un programma di apertura economica ma aveva anche manifestato la volontà di iniziare il processo di pace con l’Eritrea. Sono passati soltanto un paio di mesi ed il 5 giugno è arrivato l’annuncio-bomba: il governo di Addis Abeba era pronto ad accettare le decisioni del protocollo di Algeri e a restituire Badme all’Eritrea.
Non è ancora scontato che tutto questo porti automaticamente alla pace perché troppi sono stati gli anni di odio e perché la fine del conflitto comporterebbe necessariamente un cambiamento della politica interna eritrea, anch’essa lungamente dedicata alla lotta contro l’Etiopia. L’apertura etiope ad accettare l’accordo di Algeri è tuttavia un fatto nuovo, estremamente importante per facilitare il processo di conciliazione.
In questo quadro credo che debba essere prioritario per l’Europa, e molto più per l’Italia, favorire con ogni mezzo quest’iniziale ma promettente processo di pace in un’area dove una nostra costruttiva presenza è da tanti anni desiderata e attesa.