Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 11 giugno 2018
Nella mia lunga attività ho partecipato a ben dieci G7-G8. Cinque come Presidente del Consiglio italiano e altrettanti come Presidente della Commissione Europea. Già a cavallo del secolo si percepivano le difficoltà di questo consesso nel guidare le linee dell’economia mondiale avanzata, come era invece il disegno di quando, nel lontano 1975, i leader mondiali si erano radunati per la prima volta in Francia.
Nel frattempo il mondo era infatti cambiato: non solo la Cina si presentava come un nuovo protagonista dell’economia mondiale ma India, Brasile e altri paesi emergenti pretendevano di sedere con ugual voce accanto ai potenti della terra.
Anche se si è cercato di porre rimedio a quest’anomalia invitando a margine del G7-G8 un crescente numero di paesi come semplici uditori, la percezione di una caduta di importanza della riunione dei grandi della terra emergeva ogni anno più evidente. Vi è stata poi un’ulteriore accelerazione della decadenza nel momento in cui i G8 ritornarono ad essere i G7 in seguito all’espulsione della Russia per iniziativa del Presidente Obama come reazione all’annessione della Crimea.
Nessuno però poteva pensare ad un vera e propria implosione così come è avvenuto quest’anno nel quieto resort canadese.
Il G7 è stato mortalmente colpito proprio dagli Stati Uniti che ne erano sempre stati il pilastro fondamentale. Non è certo un caso perché, pur con i limiti e il suo indebolimento progressivo, il G7 restava l’appuntamento mediatico più importante della tradizionale e scontata cooperazione fra i paesi che avevano guidato la ripresa economica del dopoguerra.
Questa cooperazione non può essere infatti considerata un merito da colui che ha fatto di “America First” il programma della sua presidenza. Non per nulla il vero contenuto del conflitto di questo G7 si è concentrato sul problema più delicato e più portatore di conseguenze economiche e cioè sui dazi commerciali. Sappiamo che su questo tema Trump ha fondato la sua campagna elettorale e pensa perciò di doverlo usare nel modo più plateale possibile prima delle elezioni di novembre, del tutto decisive per mantenere la maggioranza nel Senato e nella Camera dei Rappresentanti. Il che lo ha portato ad uno scontro diretto non solo col Giappone e con la Francia ma perfino con il Canada, paese col quale gli Stati Uniti hanno sempre avuto un rapporto di assoluta simbiosi economica.
Affinché questa decisione politica possa avere ancora più peso per il futuro essa è stata accompagnata dalla incredibile dichiarazione di Trump che gli Stati Uniti non avrebbero più condizionato la propria condotta alle regole fondate sugli “ordinamenti internazionali”.
Naturalmente, come capita sempre in questi summit, si è cercato di alleggerire le tensioni nel comunicato finale, che deve sempre fare trapelare messaggi positivi sulla possibilità di grandi accordi futuri. E così è avvenuto anche all’incontro di Charlevoix ma il faticoso accordo è durato meno di due ore. Trump lo ha ripudiato, aggiungendo al ripudio pesanti insulti nei confronti del primo ministro canadese che aveva presieduto il summit. La frattura fra gli Stati Uniti ed i tradizionali alleati ha assunto contenuti e modi espressivi che non mancheranno di lasciare tracce in futuro. Anche perché non è certo usuale che il Presidente degli Stati Uniti non solo arrivi in ritardo ma lasci il tavolo di discussione prima dell’esaurimento dell’ordine del giorno.
Altrettanto inaspettata e sorprendente è stata la proposta di riammettere la Russia al prossimo G7 (che ritornerebbe di nuovo ad essere G8).
Sembra infatti che Trump non ne avesse parlato con nessuno e che quindi sia nata una forte irritazione personale per l’improvviso voltafaccia da parte di un paese che non solo aveva voluto le sanzioni contro Mosca ma le aveva imposte a tutti, irrigidendone anche l’interpretazione.
Il fatto più curioso è che sembra che non ne abbia parlato nemmeno con Putin. A sentire le dichiarazioni di Dimitri Peskov, uno dei più stretti collaboratori del Presidente russo, il leader del Cremlino sarebbe infatti del tutto “indifferente” rispetto al progetto di essere riammesso nel G8, in quanto interessato a iniziative del tutto diverse. In effetti, in contemporanea con tutti questi eventi, Putin ha preferito dirigersi verso la città cinese di Quingdao dove si svolge il summit del Shanghai Cooperation Agreement, che è l’associazione fra Russia, Cina e numerosi paesi asiatici, creata nel 2001 proprio per fare concorrenza al G8.
Ci troviamo quindi non solo nell’imprevedibile (caratteristica ormai costante del Presidente Trump) ma addirittura nell’incomprensibile. Una spiegazione razionale potrebbe essere quella che Trump voglia impedire un’alleanza troppo stretta fra Cina e Russia ma non vi è alcun elemento per pensare che questa sia la motivazione di quello che viene ormai chiamato “il voltafaccia”di Trump.
Credo quindi che, per almeno un po’ di tempo, ci dovremo limitare a osservare con partecipata preoccupazione questi eventi, nell’attesa che i paesi europei possano elaborare qualche iniziativa comune per difendere insieme i propri interessi. Per ora è più prudente allacciarsi le cinture.