Alberto Pasolini Zanelli
Il plotone di esecuzione per l’ex presidente americano è quasi pronto e Donald Trump ne è conscio. L’annuncio gli è stato ribadito nella forma di una “squadriglia mobile”, che ha esibito gli ultimi passi delle accuse, che ha attraversato con passo marziale il penultimo salone del palazzo del potere, scendendo, marciando, l’ultimo “scalone” di appuntamento per i suoi giudici, quella che potrebbe essere una sorta di piazza d’armi e che dovrebbe chiudere il dibattito, rimasto aperto fino alla presentazione ed esibizione dell’ultimo dei suoi atti. Uno dopo l’altro, con ritmo veloce e deciso in una specie di marcia in cui il passo di ogni giurato ha esibito la decisione presa, attraversando velocemente ma con quella forma che doveva completare lo spettacolo e togliere gli ultimi dubbi sulle intenzioni della maggioranza dei giurati. Scesi a due a due lungo un lucido salone che non offriva spazio né tempo a soluzioni alternative.
Un documento di cinque pagine, quello in cui Donald Trump viene messo per la seconda volta in stato d’accusa, nelle quali si sottolinea come l’ormai ex inquilino della Casa Bianca abbia “messo in pericolo la sicurezza degli Stati Uniti e delle sue istituzioni, minacciato l’integrità del sistema democratico e ostacolato una pacifica transizione dei poteri”, che non lascia margini di dibattito. Sì a distanza di un anno dal precedente “processo” (lì le motivazioni riguardavano presunte pressioni fatte sul governo ucraino affinché indagasse sull’attuale presidente, Joe Biden, per corruzione, accuse dalle quali Trump uscì indenne), ma che viene celebrato – prima volta nella storia degli Stati Uniti – a fine mandato. Questa volta, le ragioni sono da ricondurre all’assalto al Congresso del 6 gennaio, azioni compiute da supporter del magnate (che, nel frattempo, si è “trasferito” a Palm Beach, in Florida, dove ha costituito il proprio quartier generale), ma che sarebbero state “avallate” (anzi, “istigate”) da Trump.
Ad apporre la propria sottoscrizione, senatori e deputati, democratici ma anche repubblicani, quasi unanimi sia nelle conclusioni che nel percorso seguito. Fra le personalità più sollecite e decise, la presidente della Camera, la democratica Nancy Pelosi che in altre occasioni aveva esercitato una clausola di moderazione. Stavolta, però, il quesito era troppo esplicito e richiedeva una presa di posizione molto netta: “sì” o “no” alla decisione di trasmettere il documento nella sua totalità e immediatamente alle due Camere per la verifica finale. Di fatto, una sentenza già emessa, senza possibilità di appello, di una “corte” che si è espressa in maniera chiara e unanime. Niente di meno di un “licenziamento” collettivo, che va oltre l’impeachment puro e semplice, con una forte connotazione “politica” poiché, di fatto, racchiude un giudizio complessivo sull’intera amministrazione Trump, sia sotto il profilo della “legalità” che sotto quello della sua impostazione ideologica. Una condanna complessiva e definitiva; solo apparentemente di principio e senza possibilità di ulteriori gradi di giudizio, dei quattro anni di un tycoon che ha dipinto una delle fasi della più recente storia moderna americana.
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