(Repubblica)
di Mario Platero
NEW YORK. Al di là della coreografia, dei rumori, degli slogan, l'America ha capito tre cose dal confronto televisivo indiretto fra Donald Trump e Joe Biden in Georgia, l'ultimo di questa interminabile stagione elettorale.
La prima: sia Biden che Trump dovevano mobilitare attenzione e voto per le elezioni di martedì, determinanti per la maggioranza in Senato, ma guardavano entrambi già al deprecabile voto del giorno dopo in Congresso per certificare la vittoria di Joe Biden. Che il voto di mercoledì sia centrale lo dicono in molti - quasi 200 dei più grandi CEO del corporate Usa - e lo affermano in un appello bipartisan 11 ex segretari al Pentagono, preoccupati dalla piega che potrebbero prendere le cose, con un Presidente autoritario che ha già minacciato di far intervenire l'esercito e di applicare la legge marziale se i risultati non cambieranno: "I militari, il Pentagono, le Forze Armate, servono la Costituzione e il Paese, non un individuo" hanno firmato insieme.
C'è stato poi il termometro dell'empatia. Assoluta per Biden, che parlava solo dei problemi degli "altri" e dell'America. Inesistente per Trump, che parlava solo di stesso e di truffe elettorali inesistenti, costruite a tavolino dal delirante gruppo attivista QAnon.
Terzo messaggio comune e diametralmente opposto è quello sulla lealtà: per Biden la lealtà dei due senatori democratici in corsa, se vinceranno, dovrà essere alla Costituzione e al Paese, "certamente non per un individuo, sicuramente non per me, il Presidente, una controparte nel loro lavoro quotidiano" ha detto Biden. Trump invece ha chiarito, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che la lealtà deve essere solo per lui. E non poteva usare termini e minacce più sgradevoli e assertivi per chiarire le idee. È su queste tre differenze che oggi l'America è spaccata.
Ma partiamo dal terzo punto, la lealtà. Nella spaccatura del Paese c'è una spaccatura secondaria del partito repubblicano, sotto assedio del suo leader, il Presidente, pronto a minacciare chiunque. Lo ha fatto nella sconcertante telefonata con il segretario di Stato della Georgia Brad Raffensperger quando gli ha chiesto di "tirare fuori 11.780 voti" per poter cambiare il risultato dello stato. La minaccia? Incurante di possibili conseguenze penali ha fatto balenare la possibilità di un'inchiesta del dipartimento per la Giustizia contro di lui, per insubordinazine.
Trump ha minacciato di nuovo la scorsa notte, nel suo interminabile comizio a valanga, senza interruzione, per un'ora e dieci minuti, esternando "messaggi" questa volta al Governatore dello stato della Georgia: "Fra un anno e mezzo farò campagna contro di te, governatore e contro il segretario di Stato" ha detto. Questo solo perché i due avevano fatto il loro dovere. Nell'America di Trump salta anche ogni parametro di merito. Da notare che sia il governatore che il Segretario di Stato della Georgia sono entrambi repubblicani, hanno votato per Trump e lo appoggiavano, ma hanno seguito le procedure bipartisan concordate dallo stato alla lettera, hanno recepito le sentenze contro Trump dei tribunali locali e hanno certificato quel risultato che tornerà ad essere oggetto di voto domani.
Ma le minacce e rimostranze di Trump per "mancanza di lealtà" sono andate anche alla Corte Suprema e ai tre giudici che lui stesso ha nominato, schierati all'unanimità per la validità delle elezioni; ai senatori repubblicani che domani voteranno contro e persino al suo Vice presidente Pence, il quale "sa come "dovrà votare...ma vedremo domani al Senato". L'aspetto comico è che Trump, prototipo di un modus operandi da bullo delle "repubblica delle banane", accusa i suoi avversari e compagni di partito che rispettano una delle elezioni più verificate nella storia delle democrazie di aver trasformato l'America in un "Venezuela pronto per essere consegnato ai comunisti". L'aspetto tragico è che fin troppi americani gli credono ancora.
C'è poi il secondo punto, l'empatia: Trump in completo blu, camicia bianca, cravatta rossa era in forma, ma ha parlato per un'ora di se stesso, delle sue imprese, dei suoi successi, dei suoi problemi, delle truffe elettorali, dei tradimenti e dieci minuti dei due candidati per i quali era stato organizzato il comizio. Biden, con giubbotto e in maniche di camicia, ha parlato solo di America, di "terribili code alle banche alimentari.... questa è l'America, L'AMERICA! - ha urlato - E abbiamo code per mangiare?".
Il Presidente eletto ha promesso un rilancio delle opportunità, della possibilità di crescere, di fare qualcosa. Temi che possono sembrare generalisti e noiosi, soprattutto rispetto alla genialità creativa e mitomane di Trump. Ma dopo il martellamento ossessivo del Presidente, il comizio di Biden portava il calore della tranquillità.
Infine il primo punto, l'elezione di oggi, due democratici, John Ossoff e il reverendo Warwick contro due repubblicani, il Senatore Perdue e la giovane Kelly Loeffler. Federico Rampini su Repubblica ha già dato il quadro completo di ogni possibile variante. Ma se il voto di oggi avrà un impatto politico sull'agenda del Presidente Biden, sulla possibilità di controllare o meno il processo legislativo della Camera alta, quello di domani avrà una valenza soprattutto morale. L'esito è scontato: vinceranno i tutori della trasparenza e si procederà con la certificazione del risultato elettorale. Nel frattempo però si saranno spalmati odi e veleni. E si sarà perso tempo.
E anche se l'attacco alla democrazia sarà respinto, il semplice fatto che ci sia stato, per la prima volta in 220 anni di storia di questa Nazione, preoccupa. E ci consente di prendere un'altra misura di quanto vulnerabile possa essere la democrazia, anche quella americana.
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