Riceviamo da Aldo Nicolosi e volentieri pubblichiamo
Il problema non è nuovo: Ugo Foscolo, nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1799), scrive che “i pubblici uffici e le leggi sono scritte in una cotal lingua bastarda che le ignude frasi suggellano la ignoranza e la servitù di chi le scrive”. E pochi anni dopo Vincenzo Monti, nel 1803, critica il “barbaro dialetto miseramente introdotto nelle pubbliche amministrazioni, ove penne sciaguratissime propongono e consacrano tutto il dì l’ignominia del nostro idioma”. Ma ancora di più, nel 1540, Benedetto Varchi, nella Storia fiorentina, deplorava l’uso di “un gergo a uso di lingua furfantino”. Più recentemente il linguista padovano Claudio Magris, denuncia il linguaggio dei burocrati come “una delle forme di potere esercitate dal ceto amministrativo, cioè dai burocrati, soprattutto di rango più elevato, nei confronti del cittadino”. I deliri danno il capogiro. I richiami: anzidetto, di cui sopra, preaccennato, predetto, suddetto, sudescritto, soprallegato, suelencato, suesposto, suesteso. Le sigle: oiv (organismo indipendente di valutazione), par (piano attuativo regionale), pat (piano di assetto del territorio), pof (piano dell’offerta formativa), pua (piano urbanistico attuativo), puc (progetti utili alla collettività), pza (piano di zonizzazione acustica), rup (responsabile unico del procedimento), suap (sportello unico per le attività produttive). Le abbreviazioni: “La presente verifica di assoggettabilità a vas, redatta ai sensi della procedura prevista dall’art. 4 della L.R. 16/2008 e dall’art. 12 del D.Lgs 152/2006 e s.m.i. riguarda la variante 48 al prgc.” Non stupiamoci: la legge delega al Governo del 7 agosto 2015 prevede che nei concorsi dell’amministrazione pubblica si accerti “la conoscenza della lingua inglese e di altre lingue, ma non la padronanza della lingua italiana, orale e scritta, nella misura adeguata al livello di responsabilità a cui si aspira”.
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