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Ma che guastafeste questo Biden

Domenico Quirico per “La Stampa”

Ma che guastafeste questo Biden: chiama alle armi, alla soluzione radicale, o Putin o noi, perfino il buon dio che pure è infinitamente paziente non lo sopporta più al Cremlino, con un nemico mortale non ci sono accomodamenti, ucciderlo o farsi uccidere, nessuna via di mezzo.

Finalmente venne il Presidente! Le sue parole di guerra e di odio sono di oro zecchino, le nostre, con i distinguo e i controdistinguo, sanno di reticente, di falso. Noi dell'Unione europea facciamo la guerra ma accuratamente difensiva, pudibonda, fino a un certo punto e non oltre, per carità.

Ci viene comodissimo uno strampalato neologismo mussoliniano: tifiamo per uno dei duellanti ma restiamo «non belligeranti». Molte sono le scappatoie, confidiamo, molte le porte per non andare da nessuna parte.

Adesso non abbiamo più bisogno di Cassandre. Sappiamo ufficialmente. L'Unione europea e gli Stati Uniti combattono in Ucraina due guerre diverse pur dandosi grande manate sulle spalle e giurandosi fedeltà eterna. Perché in guerra siamo già con la Russia e l'idea di poter fermare un simile macello in qualsiasi momento come si spinge il freno dell'automobile è una bella pretesa di ingenui.

Allora: l'Europa, con buona volontà e impegno, per quanto le consentono i suoi limiti, si propone di preservare per quanto possibile la indipendenza ucraina, salvare e aiutare i profughi e, elemento cruciale, uscirne limitando i propri danni già vasti. Che sono quelli che derivano dalle forniture di gas e altri utilissimi materiali che, purtroppo, arrivano in gran quantità da quelle latitudini selvatiche.

Gli americani invece... che cosa pescano nel vaso di pandora? Gli americani, come ha spiegato sillabando bene vocali e consonanti e mettendole poi per iscritto Biden, hanno un progetto molto più ambizioso di cui l'Ucraina, è amaro dirlo, non è che lo scenario geografico e a cui fornisce il materiale umano.

Il progetto è quello di spazzar via Putin dallo scenario politico mondiale. I mezzi da impiegare si svelano a poco a poco, con l'evoluzione della situazione sul campo, come dicono giudiziosamente i generali. All'inizio era soltanto l'idea di logorare i russi con una gigantesca guerriglia.

Da anni, con saggia precauzione, la pianificavano imbottendo di armamenti efficienti gli sgangherati arsenali ucraini. Ecco servito un secondo Afghanistan modello anni Ottanta nel cuore dell'Europa con gli eroici, loro malgrado, ucraini al posto degli eroici mujiaheddin.

Sullo sfondo, non pronunciata esplicitamente ma accarezzata con cura, la possibilità che alla fine di questo ben architettato dissanguamento il capitolo finale lo scriva un efficace intrigo di palazzo: a eliminare il coriaceo dittatore logorato dalla mancata vittoria avrebbe provveduto una mano russa. In fondo il delitto perfetto. Non è escluso che le fertili menti della Cia stiano lavorando per ingaggiare pugnali in Russia disposti a correre il rischio di indossare i panni di Bruto e di Cassio. A rileggere la storia dei Servizi americani si può ben dire che questo «escamotage» è una specialità della casa. È difficile liberarsi della vecchia pelle.

Elemento fondamentale della strategia è sabotare qualsiasi possibilità di negoziato. Con dichiarazioni incendiarie, annunci di escalation chimiche batteriologiche atomiche del nemico russo, minacce, insulti. Una conclusione della guerra che veda Putin ancora al potere, per di più con la realizzazione di qualcuno dei suoi scopi come la neutralizzazione «in saecula saeculorum» della Ucraina o la definitiva russificazione di Crimea e zone collegate e allargate, sarebbe un disastro per gli americani.

Quando Zelensky lascia lampeggiare la possibilità di accettare alcune pretese russe pur di salvare quanto resta del suo Paese martoriato, si intravede l'irritazione. Serve perché è l'immagine della resistenza eroica e fino all'ultimo uomo, un abile rivenditore di sofismi oltranzisti. Se accarezzasse l'idea di metter da parte il vocabolario dell'inflessibile, be', a Kiev gli americani non faranno fatica a trovare i trinceristi del programma unico: ributtiamo i russi a casa loro.

A rilegger la storia dell'impero americano non sarebbe la prima volta: si fa in fretta a licenziare e sostituire i dipendenti locali che non si tengono sulla retta via della compiacenza e del rispetto delle regole. A Washington sanno benissimo che per loro, come per Putin, l'Ucraina cinicamente non vale in sé niente, è popolata di uomini senza importanza.

Facendola a pezzi l'autocrate russo si rivolge proprio a Biden, una esibizione di forza brutale per ottenere una trattativa diretta, esplicita tra i Grandi che coinvolga anche l'alleato cinese. Dovrebbe il vertice riscrivere l'Ottantanove nefasto, definire le aree di influenza, i vassalli e le zone grigie con la Russia restaurata così nel suo ruolo sovietico-imperiale.

Sarebbe la fine dell'ordine americano del mondo che è conseguenza proprio della dissoluzione dell'Urss (la fine della Storia) e dello sfruttamento americano della lotta infinita al terrorismo. Ma trattare con Putin vorrebbe dire ammettere che gli Stati Uniti sono una potenza debole, ormai una potenza come le altre. Nelle ultime mosse di Biden fa capolino un pericoloso aggiornamento di questa strategia dei tempi lunghi.

Gli americani hanno fretta ora di liquidare il Satana di turno. Sembrano disposti a alzare il livello dello scontro, si affaccendano a dimostrare che le trattative e i rinvii son tutte ciance che Putin sfrutta a vantaggio del suo orgoglio insolente. Insomma gli americani sembrano aver accettato l'idea che valga la pena menar le mani, di persona, direttamente. Si sente odore di battaglia e di permesso di sparare.

Come annunciatori di irrimediabile tempesta li precedono gli europei oltranzisti, la Gran Bretagna, regno disunito che nel ruolo di servizievole anglosassone trova ancora un simulacro di potenza, e i polacchi che cercano di saldare gli innumerevoli conti aperti con tutte le Russie, zarista, staliniana, putiniana. E l'altra Europa? La sua rotta fatalmente divergerà sempre più da quella americana. Poi al momento decisivo, dovrà o allineasi o ognuno cercherà di assicurarsi l'evasione con mezzi propri.

“Be there, will be wild!”


New Focus on How a Trump Tweet Incited Far-Right Groups Ahead of Jan. 6

Federal prosecutors and congressional investigators are documenting how the former president’s “Be there, will be wild!” post became a catalyst for militants before the Capitol assault.

Extremist groups immediately celebrated President Donald J. Trump’s Twitter message on Dec. 19, 2020, and widely interpreted it as an invitation to descend on Washington in force.Credit...Scott McIntyre for The New York Times

By Alan Feuer, Michael S. Schmidt and Luke Broadwater  (The New York Times)

Federal prosecutors and congressional investigators have gathered growing evidence of how a tweet by President Donald J. Trump less than three weeks before Jan. 6, 2021, served as a crucial call to action for extremist groups that played a central role in storming the Capitol.

Mr. Trump’s Twitter post in the early hours of Dec. 19, 2020, was the first time he publicly urged supporters to come to Washington on the day Congress was scheduled to certify the Electoral College results showing Joseph R. Biden Jr. as the winner of the presidential vote. His message — which concluded with, “Be there, will be wild!” — has long been seen as instrumental in drawing the crowds that attended a pro-Trump rally on the Ellipse on Jan. 6 and then marched to the Capitol.

But the Justice Department’s criminal investigation of the riot and the parallel inquiry by the House select committee have increasingly shown how Mr. Trump’s post was a powerful catalyst, particularly for far-right militants who believed he was facing his final chance to reverse defeat and whose role in fomenting the violence has come under intense scrutiny.

Extremist groups almost immediately celebrated Mr. Trump’s Twitter message, which they widely interpreted as an invitation to descend on the city in force. Responding to the president’s words, the groups sprang into action, court filings and interviews by the House committee show: Extremists began to set up encrypted communications channels, acquire protective gear and, in one case, prepare heavily armed “quick reaction forces” to be staged outside Washington.

They also began to whip up their members with a drumbeat of bellicose language, with their private messaging channels increasingly characterized by what one called an “apocalyptic tone.” Directly after Mr. Trump’s tweet was posted, the Capitol Police began to see a spike in right-wing threats against members of Congress.

Prosecutors have included examples in at least five criminal cases of extremists reacting within days — often hours — to Mr. Trump’s post.

The mob attacking the Capitol on Jan. 6.Credit...Jason Andrew for The New York Times

One of those who responded to the post was Guy Wesley Reffitt, an oil-field worker from Texas who this month became the first Jan. 6 defendant to be convicted at trial. Within a day of Mr. Trump’s Twitter post, Mr. Reffitt was talking about it on a private group chat with other members of the far-right militia organization the Texas Three Percenters.

“Our President will need us. ALL OF US…!!! On January 6th,” Mr. Reffitt wrote. “We the People owe him that debt. He Sacrificed for us and we must pay that debt.”

The next day, prosecutors say, Mr. Reffitt began to make arrangements to travel to Washington and arrive in time for “Armageddon all day” on Jan. 6, he wrote in the Three Percenters group chat. He told his compatriots that he planned to drive because flying was impossible with “all the battle rattle” he planned to bring — a reference to his weapons and body armor, prosecutors say.

Some in the group appeared to share his anger. On Dec. 22, one member wrote in the chat, “The only way you will be able to do anything in DC is if you get the crowd to drag the traitors out.”

Mr. Reffitt responded: “I don’t think anyone going to DC has any other agenda.”

The House committee has also sharpened its focus on how the tweet set off a chain reaction that galvanized Mr. Trump’s supporters to begin military-style planning for Jan. 6. As part of the congressional inquiry, investigators are trying to establish whether there was any coordination beyond the post that ties Mr. Trump’s inner circle to the militants and whether the groups plotted together.

“That tweet could be viewed as a call to action,” said Representative Pete Aguilar, Democrat of California and a member of the committee. “It’s definitely something we’re asking questions about through our discussions with witnesses. We want to know whether the president’s tweets inflamed and mobilized individuals to take action.”

On the day of the post, participants in TheDonald.win, a pro-Trump chat board, began sharing tactics and techniques for attacking the Capitol, the committee noted in a report released on Sunday recommending contempt of Congress charges for Dan Scavino Jr., Mr. Trump’s former deputy chief of staff. In one thread on the chat board related to the tweet, the report pointed out, an anonymous poster wrote that Mr. Trump “can’t exactly openly tell you to revolt. This is the closest he’ll ever get.’’

Lawyers for the militants have repeatedly said that the groups were simply acting defensively in preparing for Jan. 6. They had genuine concerns, the lawyers said, that leftist counterprotesters might confront them, as they had at earlier pro-Trump rallies.

Mr. Trump’s post came as his efforts to hang onto power were shifting from the courts, where he had little success, to the streets and to challenging the certification process that would play out on Jan. 6.

A week before his message, thousands of his supporters had arrived in Washington for the second time in two months for a large-scale rally protesting the election results. The event on Dec. 12, 2020, which Mr. Trump flew over in Marine One, showed his ability to draw huge crowds of ordinary people in support of his baseless assertions that the election had been stolen.

But it also brought together at the same time and place extremist and paramilitary groups like the Proud Boys, the Oath Keepers and the 1st Amendment Praetorian, who would be present on Jan. 6.

On Dec. 14, the Electoral College met and officially declared Mr. Biden the winner of the election.

An event in Washington on Dec. 12, 2020 showed the former president’s ability to draw huge crowds in support of his lies that the election had been stolen.Credit...Stefani Reynolds for The New York Times

But behind closed doors, outside advisers to Mr. Trump were scrambling to pitch him on plans to seize control of voting machines across the country. The debate over doing so came to a head in a contentious Oval Office meeting that lasted well into the evening on Dec. 18, 2020, and ended with the idea being put aside.

Hours later, the president pushed send on his tweet.

“Big protest in D.C. on January 6th,” he wrote at 1:42 a.m. on Dec. 19. “Be there, will be wild!”

Almost at once, shock waves rippled through the right.

At 2:26 a.m., the prominent white nationalist Nicholas J. Fuentes wrote on Twitter that he planned to join Mr. Trump in Washington on Jan. 6. By that afternoon, the post had been mentioned or amplified by other right-wing figures like Ali Alexander, a high-profile “Stop the Steal” organizer.

But Mr. Trump’s message arguably landed with the greatest impact among members of the same extremist groups that had been in Washington on Dec. 12.

On Dec. 15, Stewart Rhodes, the leader and founder of the Oath Keepers, posted an open letter to Mr. Trump urging him to invoke the Insurrection Act. The next day, the national council of the Three Percenters Original group issued a statement, saying their members were “standing by to answer the call from our president.”

Once the call came, early on Dec. 19, the extremists were ecstatic.

Stewart Rhodes, the leader and founder of the Oath Keepers, declared a few days after Mr. Trump’s tweet that there would be “a massively bloody revolution” if Joseph R. Biden Jr. ever took office.Credit...Susan Walsh/Associated Press


“Trump said It’s gonna be wild!!!!!!! It’s gonna be wild!!!!!!!,” Kelly Meggs, a Florida leader of the Oath Keepers, wrote on Facebook on Dec. 22. “He wants us to make it WILD that’s what he’s saying. He called us all to the Capitol and wants us to make it wild!!! Sir Yes Sir!!! Gentlemen we are heading to DC.”

That same day, Mr. Rhodes did an interview with one of his lieutenants and declared that there would be “a massively bloody revolution” if Mr. Biden took office.

On Dec. 23, Mr. Rhodes posted another letter saying that “tens of thousands of patriot Americans” would be in Washington on Jan. 6, and that many would have their “mission-critical gear” stowed outside the city.

The letter said members of the group — largely composed of former military and law enforcement personnel — might have to “take arms in defense of our God-given liberty.”

Trump’s tweet. Weeks before the Jan 6 attack, President Donald J. Trump sent a tweet that ended “Be there, will be wild!” Federal prosecutors and congressional investigators have gathered growing evidence of how this tweet was a crucial call to action for militants in the riot.

Judge says Trump likely committed crimes. In a court filing in a civil case, the Jan. 6 House committee laid out the crimes it believed Mr. Trump might have committed. The federal judge assigned to the case ruled that Mr. Trump most likely committed felonies in trying to overturn the 2020 election.

Virginia Thomas’s text messages. In the weeks before the Capitol riot, Virginia Thomas, the wife of Supreme Court Justice Clarence Thomas, sent several texts imploring Mark Meadows, President Trump’s chief of staff, to take steps to overturn the election. The Jan. 6 House committee is likely to seek an interview with Ms. Thomas, said those familiar with the matter.

Contempt charges. The Jan. 6 House committee voted to recommend criminal contempt of Congress charges against Peter Navarro, a former White House adviser, and Dan Scavino Jr., a former deputy chief of staff, for refusing to comply with its subpoenas.

By the end of December, court filings say, the Oath Keepers had reserved three hotel rooms in Arlington, Va. The rooms were meant as a staging ground for three teams of armed militiamen poised to rush across the river into Washington on Jan. 6 if needed.

On New Year’s Eve, court papers say, one team member from Arizona told Mr. Rhodes that his men were ready. “Everyone coming has their own technical equipment and knows how to use it,” the militiaman wrote in an encrypted message to his leader.

By then, prosecutors say, Mr. Rhodes seemed set on action.

“There is no standard political or legal way out of this,” he wrote to his group.

The Proud Boys — who had long been some of Mr. Trump’s most ardent supporters — also viewed his message as a clarion call, prosecutors say.

On the same day it was posted, Joseph Biggs, a Proud Boy leader from Florida, sent a private message to the group’s chairman, Enrique Tarrio, suggesting that they had to start recruiting better members — “not losers who wanna drink,” as he put it.

“Let’s get radical and get real men,” Mr. Biggs wrote.

The rally on the National Mall before a mob entered the Capitol.Credit...Pete Marovich for The New York Times

The next day, Mr. Tarrio established a crew of “hand-selected members” for rallies that was known internally as the Ministry of Self-Defense, or MOSD, according to an indictment released this month. As MOSD turned its attention to Jan. 6, court papers say, Mr. Tarrio set up an encrypted Telegram chat for the group.

Two days after Christmas, Charles Donohoe, a Proud Boys leader from North Carolina, posted a message complaining that local officials in Washington appeared to be planning to restrict access to the city on Jan. 6. “They want to limit the presence so they can deny Trump has the People’s support,” Mr. Donohoe wrote. “We can’t let them succeed.”

The next week, another MOSD member posted a message reading, “Time to stack those bodies in front of Capitol Hill.” A third member raised the prospect of a mob of “normies” — or normal people — pushing through police lines and breaking into the Capitol.

At the same time, prosecutors say, other Proud Boys were setting up crowdfunding campaigns for travel expenses and “protective gear and communications.” As the year came to an end, Mr. Tarrio posted a message on social media saying that the Proud Boys intended to “turn out in record numbers on Jan. 6th” but this time “with a twist.”

“We will not be wearing our traditional Black and Yellow,” he wrote, a reference to the Fred Perry polo shirts favored by the group. “We will be incognito and we will be spread across downtown DC in smaller teams.”

On Dec. 21, the intelligence arm of the Capitol Police issued a 7-page report tracking an increase in activity on TheDonald.win, which made threatening references to potentially trapping lawmakers in the tunnels of the Capitol. The report listed militia groups expected to descend on Capitol Hill for Jan. 6, including the Proud Boys and the Oath Keepers.

The report also stated that Trump supporters were promoting “confronting members of Congress and carrying firearms during the protest.”

Il candore di Biden e' una spada a doppio taglio

When President Biden ad-libbed a line about how Russian President Vladimir Putin “cannot remain in power,” he was echoing a popular global sentiment, albeit one with enormous gravity.

The unscripted remark on its own suggested a dramatic shift in U.S. policy about regime change in Russia before the White House worked hurriedly to walk it back. To some, it was seen as a moment of candor by a president whose decades-long political career had him entrenched in foreign policy matters — one in which he now stands on the world stage.

Others say that Biden’s tendency toward candidness is a dual-edged sword. It helps him relate to regular Americans but also at times has become a problem for a White House that has tried to stay disciplined in its message.

Time and again, particularly when it comes to foreign policy, Biden has hardly left the public guessing about his feelings and intentions. But the moment in Warsaw, Poland, threatened to upset his administration’s carefully crafted policy on Russia with the eyes of the world watching in what was arguably one of the most pivotal moments of his presidency.

“It was classic Biden in a moment when he really can’t or shouldn’t be that guy,” said one Democratic strategist who agreed with the sentiment but wondered about its ramifications. “It’s clear it’s how he really feels about the guy, but he didn’t need to show all his cards in that moment.”

Biden has had a long history of speaking with no filter when it comes to matters of foreign policy. At times, it has set him back.

When he was vice president, for example, he was forced to phone leaders in Turkey, the United Arab Emirates and Saudi Arabia to apologize after making public comments suggesting those countries were contributing to extremist groups in Syria.

But it has also been helpful to him, particularly during the 2020 presidential election, when he was up against former President Trump, a man infamous for relentlessly firing off insults and speaking off the cuff, upending his administration in the process.

“There was a time in Joe Biden’s political career when his candor was a detriment and then it advanced to a place where it was an asset,” said Democratic strategist Joel Payne. “Now you have to harness the Biden candor to balance it against the limitations of being head of state.”

Even before Russia invaded Ukraine last month, Biden spoke almost too openly in January when addressing the build up of Russian troops on the Ukrainian border.

After predicting that Putin would “move in” on Ukraine, Biden suggested during a press conference that a “minor incursion” into the country by the Kremlin may not inspire a strong international response.

The White House was again on cleanup duty — this time to clarify the remarks by saying that any Russian troops crossing the border into Ukraine would constitute an invasion.

“I think it matters what side of the bed he gets up on in the morning as to what he’s going to do,” Biden said of the Russian leader.

The parlor talk was surprising to foreign policy analysts and political observers alike who aren’t accustomed to such candor out of the West Wing.

Biden also made news, just days before the Russian invasion, when he declared of Putin, “As of this moment, I am convinced he’s made the decision.” That caught even the Ukrainians by surpris

Biden on Monday said he was expressing his own “moral outrage” at Putin’s behavior and not articulating a change in U.S. policy when answering questions from reporters about his Saturday remark. He also stood firmly by his comments, which he made following a visit to see Ukrainian refugees in Poland.

“I was expressing the moral outrage that I feel,” Biden said. “I make no apologies for it.”

Michael O’Hanlon, a senior fellow at the Brookings Institution, said that Biden’s comments struck him as genuine and that the president was, on one hand, probably speaking for a lot of Americans.

“His style is ‘shoot from the hip’ and always has been,” O’Hanlon said, noting that’s part of Biden’s political and personal appeal. “He sometimes just tells you what he thinks without worrying too much about how it’s going to sound.”

Still, O’Hanlon expressed concern that Biden’s Saturday statement, combined with his recent harsh rhetoric about Putin, suggest the White House is “disengaged” from the peace process between Russia and Ukraine.

“We should very much be in the peace process conversation,” O’Hanlon said. “We should be thinking harder about how to incentivize both sides to reach a tolerable, least-bad compromise to end the conflict.”

Biden has eviscerated Putin in public comments, recently calling him a “war criminal” in an offhand exchange with a reporter. It came despite the administration sidestepping that language before an official determination had been made about Russian strikes on civilian areas in Ukraine.

Biden has also used the words “butcher,” “thug” and “murderous dictator” to describe the Russian leader.

Even before the invasion, Biden said last year he believed Putin was a killer. When Biden, as vice president, met with Putin in 2011, he told the Russian president he believed he had “no soul,” Biden wrote in his book, "Promise Me Dad."

Biden and Putin, however, had seemed to keep up a working rapport, including meeting for several hours in Geneva last summer months after Biden became president.

There are signs Biden’s statement on Putin, however, suggests it will further crater U.S-Russia relations.

Kremlin spokesman Dmitry Peskov called the remark a “personal insult” and “completely unacceptable” in an interview with PBS.

An op-ed in The Wall Street Journal on Monday noted, “At what point does Joe Biden’s verbal incontinence start to become a moral threat to Americans?”


“It’s one thing to misidentify your vice president as the first lady, quite another to call for the ouster of an autocratic and bellicose leader of a nation with nuclear weapons. That is the kind of thing that can trigger wars and could result in the annihilation of much of humanity.”

But Democratic strategists say Biden is being true to himself.

“In the moment, he was saying what he truly felt,” said Democratic strategist Rodell Mollineau. “There was an exasperation that not only he feels, but leaders around the world feel.”

“No one is saying that sentiment is wrong,” Mollineau added. “It’s just that he said it out loud.”

BY AMIE PARNES AND MORGAN CHALFANT   (The Hill)

Come acquistare Borgo Pinti

                 

Gentile Lettore 
Gentile Lettrice, 
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Grazie per la Sua cortese collaborazione.                                          Oscar


Borgo Pinti, in questa strada si è sviluppata la storia di una famiglia fiorentina caratterizzata da alti e soprattutto bassi momenti di vita. 

I personaggi descritti non sono romanzati e volutamente il tono generale di questo libro è quello di una descrizione talvolta sinceramente amara ma reale, tralasciando gli orpelli della scrittura barocca pseudo psicologica e focalizzando invece il racconto in maniera asciutta, quasi un diario. 

La nota consistente di questa storia  è l'amore. L'amore soprattutto che le donne riescono ad esprimere sobbarcandosi il peso di una gestione familiare durante la guerra, aggravata-si fa per dire-dalla presenza mai ingombrante di un nipote strappato alla madre naturale per garantirgli un futuro meno miserabile.

Ed anche le suore domenicane riescono a dare un'impronta al piccolo Lalli che nelle varie vicende della sua vita professionale riuscirà a salvarsi proprio grazie al dono di una fede che resta un pilone d'ormeggio di assoluta importanza. 

Infine la fortuna di aver trovato una donna, Franca, con la quale ha creato una lunga storria d'amore allietata dalla nascita di due figli che a loro volta ripagano i genitori con il loro affettto e la loro vicinanza spirituale.

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  • ISBN: 978-88-7728-521-8
  • Collana: Sguardi
  • Argomento: Narrativa
  • Autore: Oscar Bartoli
  • Pagine: 164
  • https://www.aebeditrice.com/product/borgo-pinti/
Borgo Pinti attualmente e'sul sito della A&B, a breve in tutte le librerie d’Italia 

Prima c'è stato Donald Trump:


Mario Platero per “la Repubblica - Affari & Finanza


Prima c'è stato Donald Trump: ha rotto con gli alleati per il gusto della rottura e ha destabilizzato i commerci mondiali con la bandiera "America First". Poi il Covid19, che ha impresso un'accelerazione ai vari rivoli dell'economia digitale gettando le fondamenta per cambiamenti sistemici.

Infine è arrivato il vorace attacco della Russia all'Ucraina, l'evento più terribile, perché, oltre a mostrarci civili europei uccisi per strada, ha anche scardinato quel poco che restava della globalizzazione.

«Questo è il momento nel quale le cose cambiano - ha detto Joe Biden prima di venire in Europa parlando alla Business Roundtable, a un'associazione imprenditoriale americana - Ci sarà un nuovo ordine mondiale là fuori e noi dovremo guidarlo. E dobbiamo unire il resto del mondo in questa missione».

Difficile farlo, però, se oltre alla Russia all'appello mancheranno anche Cina e India. Sempre la settimana scorsa alle parole della massima autorità politica americana hanno fatto eco quelle della massima autorità finanziaria, Larry Fink.

Il fondatore di BlackRock, nella sua lettera agli azionisti, ha dato un messaggio molto simile e semmai più esplicito di quello di Biden: «L'invasione russa dell'Ucraina ha messo fine alla globalizzazione come l'abbiamo sperimentata negli ultimi trent'anni».

Questa guerra insomma, non è solo militare, è anche economica, con due sistemi a confronto, democrazie liberali di mercato da una parte, autocrazie e assolutismo dall'altra.

Anche per questo tutti si chiedono: come andrà a finire? Cosa succederà dei nostri processi economici, e di quel che resta della globalizzazione una volta superati gli eccidi scatenati dalla Russia per una catastrofica scommessa con la storia di Vladimir Putin?

Non lo sappiamo, ovviamente. Le difficoltà russe nell'imporsi sull'Ucraina prolungano il conflitto. Si temono reazioni inconsulte da parte di Mosca, magari con l'uso di armi atomiche tattiche o chimiche. Sullo sfondo si allunga l'ombra della Cina. E ha ragione Joe Biden, tutto cambierà.

Ma non si intravede come alla fine della Guerra fredda un modello cooperativo in uscita dal tunnel.

Anzi, si sta profilando un mondo fatto di blocchi, di gruppi di Paesi in concorrenza fra loro, un "multipolarismo competitivo" come lo ha definito Maurizio Massari, il nostro ambasciatore al Palazzo di Vetro, parlando a 1.400 studenti italiani all'Onu. Un multipolarismo che difficilmente si trasformerà, in tempi brevi, in cooperazione.

Del resto, è la stessa retorica di Biden nel suo viaggio in Europa della settimana scorsa, a parlarci di blocchi e di confronto quando ha chiesto che la Russia sia esclusa dal G20. Si tratta del pilastro più avanzato per la gestione della globalizzazione e del multilateralismo su cui poggiava la Pax Americana, lanciato dal Presidente Obama subito dopo la crisi finanziaria del 2007-2009.

Nel suo discorso alla Nato Biden ha anche confermato il contesto sistemico del confronto: democrazie contro autocrazie, con la Cina protagonista di questa equazione a più incognite. Cina che - dice Biden - da una parte sarà punita da sanzioni economiche durissime se continuerà ad aiutare la Russia e dall'altra dovrà essere aggirata, muovendo fuori dai suoi confini catene produttive critiche per l'offerta e la produzione delle democrazie industriali.

Non esattamente un ramoscello d'ulivo. Ma Biden ha capito che sotto attacco in Ucraina, ci sono, in modo indiretto, anche il sistema americano e occidentale, ci sono le grandi aziende che capitalizzano singolarmente quanto l'intero Pil russo e ci sono gli imprenditori americani liberi di spostare i loro orizzonti di affari persino nello spazio.

Per questo Biden chiarisce bruscamente a Pechino e Mosca che alla fine saranno loro a pagare con l'isolamento. All'americana si potrebbe dire "wishful thinking", come dire "speriamo in bene", un auspicio che oggi non basta. Perché quando Biden chiede che la Russia esca dal G20, di fatto chiede la chiusura del gruppo e spacchetta lui stesso la globalizzazione in quei blocchi di Paesi in confronto fra loro.

Non è immaginabile ritrovare oggi quel consenso del G7 del marzo del 2014 quando si lasciò fuori la Russia per punirla dell'annessione della Crimea. Fu quella la presa d'atto formale che la Russia aveva respinto le continue aperture e offerte del post Guerra Fredda per la cogestione globale di un multilateralismo aperto - e cioè l'invito a entrare nel G7 nel 1997, qualche anno dopo l'invito a entrare nel G20 e poi nel Wto, l'organizzazione per il commercio mondiale.

Già allora i semi del disaccordo erano evidenti. L'irritazione e la resistenza russa non erano per l'avanzamento dei confini della Nato, ma perché in cambio della cogestione si chiedeva a Mosca di fare passi in avanti lungo il sentiero delle libertà civili e della democrazia, cosa che Vladimir Putin per forma mentis, convinzione e ego personale non poteva accettare.

Espellere la Russia dal G20 non è come espellerla dal G8. Nel G20 oltre alla Russia ci sono India, Cina e Sudafrica, che nella votazione di giovedì scorso per isolare la Russia all'Assemblea generale dell'Onu si sono astenuti.

È immaginabile che i governi di questi Paesi accettino un'uscita della Russia dal G20 su proposta americana? Più probabile che escano loro. E che credibilità avrebbe un gruppo per la gestione degli equilibri mondiali se uscissero Cina e India, i due Paesi più popolosi al mondo, con l'aggiunta di un simbolo africano e chissà, forse sudamericano con un Brasile che appare ondivago?

Davanti alla prospettiva dei blocchi, sempre nella sua lettera, Larry Fink, con molto realismo, prende atto che per le aziende non sarà facile adeguarsi a regimi economici caratterizzati da percorsi a ostacoli per l'accesso a materie prime (pensiamo al nickel che arriva per l'80% da Russia e Ucraina), a derrate alimentari primarie, come il grano, e all'energia, che oggi, con gli aumenti dei prezzi del greggio, sta soffiando sul fuoco dell'inflazione.

Sarebbe bello insomma pensare di tornare indietro allo spirito del 1992, quando con la fine della Guerra fredda si metteva in cantiere un approccio multilaterale e si staccava quel dividendo per la pace che sarebbe durato per quasi un decennio, portando prosperità e innovazione tecnologia, fino all'attacco alle Torri Gemelle.

Ma indietro non si torna, e se a breve il futuro, sul piano economico, resta incerto, nel lungo termine torneremo a una globalizzazione governata più chiara e trasparente di quella che abbiamo avuto finora. Almeno, questo, è il pronostico di Larry Fink.

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Acquisti americani – Il piano sul gas e l’esigenza di diventare autosufficienti

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero 

Tre vertici si sono svolti a Bruxelles in una sola settimana: il Consiglio della NATO, il G.7 e il Consiglio Europeo. Tutti dedicati agli aspetti politici ed economici della guerra in Ucraina e tutti dominati dalla presenza, diretta o indiretta, del presidente americano Joe Biden.

Il suo obiettivo era quello di rendere ancora più stretta e visibile l’alleanza militare, di rinforzare le sanzioni economiche nei confronti del Cremlino e, infine, di ridurre la dipendenza energetica europea dalla Russia.

Sotto l’aspetto politico la già esistente unità di strategia nell’ambito della Nato e tra tutti i paesi europei è stata ulteriormente rinforzata, così come ne è uscito un sostanziale accordo sul rifornimento di armi all’Ucraina e sui già esistenti limiti rispetto a un’ulteriore “escalation” dell’intervento militare.


E’ stato inoltre deciso di prolungare di un ulteriore anno la nomina di Jeans Stoltenberg a segretario generale della Nato e di irrobustire la presenza dell’alleanza lungo i confini dell’est, non solo in Polonia, ma anche in Bulgaria, Romania e Slovacchia.

La strategia di Biden di aiutare a vincere la guerra di Ucraina, evitando di fare la guerra, è stata quindi vincente ed è stata accolta con unanime favore in Europa, dove la non certo eccessiva popolarità del Presidente americano è ora assai aumentata.

Per quanto contino le analisi demoscopiche, è singolare il fatto che il giudizio favorevole nei confronti di Biden non sia invece migliorato presso i suoi elettori: i lunghi anni in cui l’opinione pubblica americana è stata tutta concentrata sulla competizione con la Cina, hanno certamente reso più largo l’Atlantico. Per il cittadino americano, gli eventi europei sono ormai distanti e certamente meno sentiti rispetto alla competizione con la Cina.

Più complesso è il giudizio sulle decisioni economiche, che pure sono state accolte con un certo favore in tutti i paesi europei.


Nel comunicato congiunto si legge che Biden si è impegnato a garantire il riempimento del 90% delle scorte europee di gas entro il prossimo autunno, a fornirne 15 miliardi di metri cubi aggiuntivi entro la fine dell’anno per arrivare, entro il 2030, a esportarne in Europa 50 miliardi di metri cubi all’anno, in modo da rendere meno pesante la dipendenza dalla Russia che, nello scorso anno, ha esportato verso i paesi europei ben 155 miliardi di metri cubi di gas.

Ottimo proposito ma, proprio ragionando su autorevoli fonti americane, non proprio facile da concretizzare. In primo luogo anche la pur cospicua esportazione di GNL (Gas Naturale Liquefatto) degli Stati Uniti non può, per motivi ambientali, crescere sensibilmente oltre gli attuali 100 miliardi di metri cubi all’anno.


Inoltre, l’esportazione di gas non può fisicamente aumentare in un breve spazio di tempo perché i terminali americani operano a capacità piena e occorrono quasi tre anni per costruirne di nuovi, che vengono iniziati solo se vi è la garanzia di fornitura e di acquisto per almeno un ventennio. L’unico modo per accrescere sostanzialmente le esportazioni in Europa è quindi quello di deviare verso i nostri mercati parte della produzione che ora viene, per oltre la metà, esportata verso l’Asia.

Bisogna però tenere conto che, per una quota consistente, si tratta di contratti a lungo termine e che la modesta parte disponibile deve essere pagata a prezzi concorrenziali con quelli, già altissimi, che vengono pagati dai mercati asiatici. Nel comunicato congiunto sull’accordo non si parla dei prezzi che, ovviamente, negli Stati Uniti non possono che essere lasciati al libero mercato.


Se ragioniamo coi dati di oggi, dobbiamo in ogni caso concludere che, oltre al prezzo all’origine, i costi di liquefazione, trasporto e rigassificazione porterebbero il prezzo del gas in Europa a un livello pari ad almeno cinque volte rispetto a quello degli Stati Uniti.

Il tutto senza tenere conto del fatto che in Europa gli impianti di rigassificazione già operano a piena capacità, salvo quelli spagnoli, che tuttavia non sono connessi con il resto d’Europa. Anche nel caso europeo, ci vogliono evidentemente anni per costruirne di nuovi.

Ben vengano quindi gli accordi di Bruxelles, anche se ci possono liberare solo di una modesta parte dell’attuale eccessiva dipendenza da Mosca.

Non dimentichiamo inoltre che noi dipendiamo non solo dal 40% del nostro consumo di gas che arriva dalla Russia, ma anche dal 24% che viene dall’Algeria e dalla Libia e dal 10% dall’Azerbaigian. Tutte queste forniture, almeno nel lungo periodo, sono a rischio.


Anzi, quando durante il mio governo chiedevo ai massimi esperti italiani di approfondire questo problema, Libia e Algeria presentavano probabilità di interruzione della fornitura assai maggiori della Russia.

L’unica decisione ragionevole, data l’impossibilità politica di aumentare a sufficienza la produzione interna, era quindi di diminuire il rischio moltiplicando i paesi fornitori.

Quanto sta avvenendo in questi tragici giorni ci deve spingere a passi ulteriori: dobbiamo camminare con ogni mezzo verso l’autosufficienza nazionale, in attesa che si arrivi a una comune politica energetica europea. Obiettivo che non è certo vicino quando, nello stesso giorno, la Francia decide di costruire sei nuove centrali nucleari e la Germania non ha ancora deciso di rinviare la chiusura delle sue ultime centrali nucleari ancora in funzione.

The Making of Vladimir Putin Tracing Putin’s 22-year slide from statesman to tyrant. (TNYT)


PARIS — Speaking in what he called “the language of Goethe, Schiller and Kant,” picked up during his time as a K.G.B. officer in Dresden, President Vladimir V. Putin addressed the German Parliament on Sept. 25, 2001. “Russia is a friendly European nation,” he declared. “Stable peace on the continent is a paramount goal for our nation.”

The Russian leader, elected the previous year at the age of 47 after a meteoric rise from obscurity, went on to describe “democratic rights and freedoms” as the “key goal of Russia’s domestic policy.” Members of the Bundestag gave a standing ovation, moved by the reconciliation Mr. Putin seemed to embody in a city, Berlin, that long symbolized division between the West and the totalitarian Soviet world.

Norbert Röttgen, a center-right representative who headed the Parliament’s Foreign Affairs Committee for several years, was among those who rose to their feet. “Putin captured us,” he said. “The voice was quite soft, in German, a voice that tempts you to believe what is said to you. We had some reason to think there was a viable perspective of togetherness.”

Today, all togetherness shredded, Ukraine burns, bludgeoned by the invading army Mr. Putin sent to prove his conviction that Ukrainian nationhood is a myth. More than 3.7 million Ukrainians are refugees; the dead mount up in a month-old war; and that purring voice of Mr. Putin has morphed into the angry rant of a hunched man dismissing as “scum and traitors” any Russian who resists the violence of his tightening dictatorship.




ImageThe Retroville Mall in Kyiv, the Ukrainian capital, was in ruins after being shelled by Russian forces this week.Credit...Lynsey Addario for The New York Times


A refugee family from Ukraine arriving at a train station in Budapest this month.Credit...Mauricio Lima for The New York Times

His opponents, a “fifth column” manipulated by the West, will meet an ugly fate, Mr. Putin vowed this month, grimacing as his planned blitzkrieg in Ukraine stalled. True Russians, he said, would “spit them out like a gnat that accidentally flew into their mouths” and so achieve “a necessary self-purification of society.”

This was less the language of Kant than of fascist nationalist exaltation laced with Mr. Putin’s hardscrabble, brawling St. Petersburg youth.

Between these voices of reason and incitation, between these two seemingly different men, lie 22 years of power and five American presidents. As China rose, as America fought and lost its forever wars in Iraq and Afghanistan, as technology networked the world, a Russian enigma took form in the Kremlin.

Did the United States and its allies, through excess of optimism or naïveté, simply get Mr. Putin wrong from the outset? Or was he transformed over time into the revanchist warmonger of today, whether because of perceived Western provocation, gathering grievance, or the giddying intoxication of prolonged and — since Covid-19 — increasingly isolated rule?

Mr. Putin is an enigma, but he is also the most public of figures. Seen from the perspective of his reckless gamble in Ukraine, a picture emerges of a man who seized on almost every move by the West as a slight against Russia — and perhaps also himself. As the grievances mounted, piece by piece, year by year, the distinction blurred. In effect, he became the state, he merged with Russia, their fates fused in an increasingly Messianic vision of restored imperial glory.
From the Ashes of Empire

“The temptation of the West for Putin was, I think, chiefly that he saw it as instrumental to building a great Russia,” said Condoleezza Rice, the former secretary of state who met several times with Mr. Putin during the first phase of his rule. “He was always obsessed with the 25 million Russians trapped outside Mother Russia by the breakup of the Soviet Union. Again and again he raised this. That is why, for him, the end of the Soviet empire was the greatest catastrophe of the 20th century.”

But if irredentist resentment lurked, alongside a Soviet spy’s suspicion of the United States, Mr. Putin had other initial priorities. He was a patriotic servant of the state. The post-communist Russia of the 1990s, led by Boris N. Yeltsin, the country’s first freely elected leader, had sundered.

In 1993, Mr. Yeltsin ordered the Parliament shelled to put down an insurgency; 147 people were killed. The West had to provide Russia with humanitarian aid, so dire was its economic collapse, so pervasive its extreme poverty, as large swaths of industry were sold off for a song to an emergent class of oligarchs. All this, to Mr. Putin, represented mayhem. It was humiliation.


Protesters climbed onto tanks in Moscow in August 1991 after Mikhail Gorbachev, the Soviet leader, was briefly removed from power by hardliners.Credit...Boris Yurchenko/Associated Press


In 1993, Boris Yeltsin, Mr. Putin’s predecessor, ordered Russia’s Parliament shelled to put down an insurgency.Credit...Sergei Karpukhin/Associated Press

“He hated what happened to Russia, hated the idea the West had to help it,” said Christoph Heusgen, the chief diplomatic adviser to former Chancellor Angela Merkel of Germany between 2005 and 2017. Mr. Putin’s first political manifesto for the 2000 presidential campaign was all about reversing Western efforts to transfer power from the state to the marketplace. “For Russians,” he wrote, “a strong state is not an anomaly to fight against.” Quite the contrary, “it is the source and guarantor of order, the initiator and the main driving force of any change.”

But Mr. Putin was no Marxist, even if he reinstated the Stalin-era national anthem. He had seen the disaster of a centralized planned economy, both in Russia and East Germany, where he served as a K.G.B. agent between 1985 and 1990.

The new president would work with the oligarchs created by chaotic, free-market, crony capitalism — so long as they showed absolute fealty. Failing that, they would be expunged. If this was democracy, it was “sovereign democracy,” a phrase embraced by Mr. Putin’s top political strategists, stress on the first word.

Marked, to some degree, by his home city of St. Petersburg, built by Peter the Great in the early 18th century as a “window to Europe,” and by his initial political experience there from 1991 working in the mayor’s office to attract foreign investment, Mr. Putin does appear to have been guardedly open to the West early in his rule.

He mentioned the possibility of Russian membership of NATO to President Bill Clinton in 2000, an idea that never went anywhere. He maintained a Russian partnership agreement signed with the European Union in 1994. A NATO-Russia Council was established in 2002. Petersburg man vied with Homo Sovieticus.

This was a delicate balancing act, for which the disciplined Mr. Putin was prepared. “You should never lose control,” he told the American movie director Oliver Stone in “The Putin Interviews,” a 2017 documentary. He once described himself as “an expert in human relations.” German lawmakers were not alone in being seduced by this man of impassive features and implacable intent, honed as an intelligence operative.

“You must understand, he is from the K.G.B., lying is his profession, it is not a sin,” said Sylvie Bermann, the French ambassador in Moscow from 2017 to 2020. “He is like a mirror, adapting to what he sees, in the way he was trained.”
A few months before the Bundestag speech, Mr. Putin famously won over President George W. Bush, who, after their first meeting in June 2001, said he had looked into the Russian president’s eyes, gotten “a sense of his soul” and found him “very straightforward and trustworthy.” Mr. Yeltsin, similarly swayed, anointed Mr. Putin as his successor just three years after he arrived in Moscow in 1996.


Mr. Putin, then the prime minister, with Mr. Yeltsin as he left the Kremlin in 1999.Credit...TASS, via Getty Images


“Stable peace on the continent is a paramount goal for our nation,” Mr. Putin told German lawmakers in 2001. Credit...Fritz Reiss/Associated Press

“Putin orients himself very precisely to a person,” Mikhail B. Khodorkovsky, Russia’s richest man before he served a decade in a Siberian penal colony and had his company forcibly broken up, told me in an interview in 2016 in Washington. “If he wants you to like him, you will like him.”

The previous time I had seen Mr. Khodorkovsky, in Moscow in October 2003, was just days before his arrest by armed agents on embezzlement charges. He had been talking to me then about his bold political ambitions — a lèse-majesté unacceptable to Mr. Putin.
An Authoritarian’s Rise

The wooded presidential estate outside Moscow was comfortable but not ornate. In 2003, Mr. Putin’s personal tastes did not yet run to palatial grandiosity. Security guards lounged around, gawking at TVs showing fashion models on the runways of Milan and Paris.

Mr. Putin, as he likes to do, kept us waiting for many hours. It seemed a small demonstration of one-upmanship, a minor incivility he would inflict even on Ms. Rice, similar to bringing his dog into a meeting with Ms. Merkel in 2007 when he knew she was scared of dogs.

“I understand why he has to do this,” Ms. Merkel said. “To prove he’s a man.”

When the interview with three New York Times journalists at last began, Mr. Putin was cordial and focused, comfortable in his strong command of detail. “We firmly stand on the path of development of democracy and of a market economy,” he said, adding, “By their mentality and culture, the people of Russia are Europeans.”

He spoke of “good, close relations” with the Bush administration, despite the Iraq war, and said “the main principles of humanism — human rights, freedom of speech — remain fundamental for all countries.” The greatest lesson of his education, he said, was “respect for the law.”

At this time, Mr. Putin had already clamped down on independent media; prosecuted a brutal war in Chechnya involving the leveling of Grozny, its capital; and placed security officials — known as siloviki — front and center in his governance. Often, they were old St. Petersburg buddies, like Nikolai Patrushev, now the secretary of Mr. Putin’s security council. The first rule of an intelligence officer is suspicion.


Grozny, Chechnya’s capital, in 2000. Mr. Putin ordered the city razed to put down a separatist movement.Credit...Dmitry Belyakov/Associated Press


Russian soldiers watched an oil well burn in northern Chechnya in late 1999.Credit...James Hill for The New York Times

When asked about his methods, the president bristled, suggesting America could not claim any moral high ground. “We have a proverb in Russia,” he said. “One should not criticize a mirror if you have a crooked face.”

The overriding impression was of a man divided behind his unflinching gaze. Michel Eltchaninoff, the French author of “Inside the Mind of Vladimir Putin,” said there was “a varnish of liberalism to his discourse in the early 2000s,” but the pull of restoring Russian imperial might, and so avenging Russia’s perceived relegation to what President Barack Obama would call “a regional power,” was always Mr. Putin’s deepest urge.

Born in 1952 in a city then called Leningrad, Mr. Putin grew up in the shadow of the Soviets’ war with Nazi Germany, known to Russians as the Great Patriotic War. His father was badly wounded, an older brother died during the brutal 872-day German siege of the city, and a grandfather had worked for Stalin as a cook. The immense sacrifices of the Red Army in defeating Nazism were not abstract but palpable within his modest family, as for many Russians of his generation. Mr. Putin learned young that, as he put it, “the weak get beat.

“The West did not take sufficient account of the strength of Soviet myth, military sacrifice and revanchism in him,” Mr. Eltchaninoff, whose grandparents were all Russian, said. “He believes deeply that Russian man is prepared to sacrifice himself for an idea, whereas Western man likes success and comfort.”


The Motherland Calls, a statue in Volgograd, Russia, commemorates soldiers killed in the Battle of Stalingrad.Credit...Sergey Ponomarev for The New York Times


Stalingrad in the fall of 1942. “The Great Patriotic War,” as World War II is known in Russia, plays an outsize role in the country’s political mythmaking. Credit... Sovfoto/Universal Images Group, via Getty Images

Mr. Putin brought a measure of that comfort to Russia in the first eight years of his presidency. The economy galloped ahead, foreign investment poured in. “It was perhaps the happiest time in the country’s life, with a measure of prosperity and level of freedom never matched in Russian history,” said Alexander Gabuev, a senior fellow at the Carnegie Moscow Center.

Mr. Gabuev, who, like thousands of liberal Russians, has fled to Istanbul since the war in Ukraine began, added that “there was a lot of corruption and concentration of wealth, but also lots of boats rising. And remember, in the 1990s, everyone had been poor as a church mouse.” Now the middle class could vacation in Turkey or Vietnam.

The problem for Mr. Putin was that to diversify an economy, the rule of law helps. He had studied law at St. Petersburg University and claimed to respect it. In fact, power proved to be his lodestone. He held legal niceties in contempt. “Why would he share power when he could live off oil, gas, other natural resources, and enough redistribution to keep people happy?” Mr. Gabuev said.

Timothy Snyder, the prominent historian of fascism, put it this way: “Having toyed with an authoritarian rule-of-law state, he simply become the oligarch-in-chief and turned the state into the enforcer mechanism of his oligarchical clan.”

Still, the biggest country on earth, stretching across 11 time zones, needed more than economic recovery to stand tall once more. Mr. Putin had been formed in a Soviet world that held that Russia was not a great power unless it dominated its neighbors. Rumblings at the country’s doorstep challenged that doctrine.

In November 2003, the Rose Revolution in Georgia set that country firmly on a Western course. In 2004 — the year of NATO’s second post-Cold War expansion, which brought in Estonia, Lithuania, Latvia, Bulgaria, Romania, Slovakia and Slovenia — massive street protests, known as the Orange Revolution, erupted in Ukraine. They, too, stemmed from a rejection of Moscow and the embrace of a Western future.


Ukrainian police officers guarded the Parliament building in Kyiv, the capital, during the Orange Revolution protests of 2004.Credit...Sergey Supinski/Agence France-Presse — Getty Images

Mr. Putin’s turn from cooperation with the West to confrontation began. It would be slow but the general direction was set. Once, asked by Ms. Merkel what his greatest mistake had been, the Russian president replied: “To trust you.”
A Clash With the West

From 2004 onward, a distinct hardening of Mr. Putin’s Russia — what Ms. Rice, the former secretary of state, called “a crackdown where they were starting to spin these tales of vulnerability and democratic contagion” — became evident.

The president scrapped elections for regional governors in late 2004, turning them into Kremlin appointees. Russian TV increasingly looked like Soviet TV in its undiluted propaganda.

In 2006, Anna Politkovskaya, an investigative journalist critical of rights abuses in Chechnya, was murdered in Moscow on Mr. Putin’s birthday. Another Kremlin critic, Alexander Litvinenko, a former intelligence agent, who had dubbed Russia “a mafia state,” was killed in London, poisoned with a radioactive substance by Russian spies.


A memorial service in 2007 commemorating the first anniversary of the slaying of the Russian journalist Anna Politkovskaya.Credit...Alexander Zemlianichenko/Associated Press


The funeral for Alexander Litvinenko, a former intelligence agent poisoned by Russian spies, in London in 2006.Credit...Cathal McNaughton/Reuters

For Mr. Putin, NATO expansion into countries that had been part of the Soviet Union or its postwar East European imperium represented an American betrayal. But the threat of a successful Western democracy on his doorstep appears to have evolved into a more immediate perceived threat to his increasingly repressive system.

“Putin’s nightmare is not NATO, but democracy,” said Joschka Fischer, a former German foreign minister who met with Mr. Putin several times. “It’s the color revolutions, thousands of people on the streets of Kyiv. Once he embraced an imperial, military ideology as the foundation of Russia as a world power, he was unable to tolerate this.”

Although Mr. Putin has portrayed a West-leaning Ukraine as a threat to Russian security, it was more immediately a threat to Putin’s authoritarian system itself. Radek Sikorski, the former Polish foreign minister, said: “Putin is of course right that a democratic Ukraine integrated with Europe and successful is a mortal threat to Putinism. That, more than NATO membership, is the issue.”

The Russian president does not take well to mortal threats, real or imagined. If anyone had doubted Mr. Putin’s ruthlessness, they stood corrected by 2006. His loathing of weakness dictated a proclivity for violence. Yet Western democracies were slow to absorb this basic lesson.

They needed Russia, and not only for its oil and gas. The Russian president, who was the first to call President Bush after 9/11, was an important potential ally in what came to be called the Global War on Terror. It meshed with his own war in Chechnya and with a tendency to see himself as part of a civilizational battle on behalf of Christianity.


Mr. Putin with President George W. Bush in Ljubljana, Slovenia, in June 2001. At left is Condoleezza Rice, then Mr. Bush’s national security adviser. Credit...Larry Downing/Reuters

But Mr. Putin was far less comfortable with Mr. Bush’s “freedom agenda,” announced in his second inaugural of January 2005, a commitment to promote democracy across the world in pursuit of a neoconservative vision. In every stirring for liberty, Mr. Putin now saw the hidden hand of the United States. And why would Mr. Bush not include Russia in his ambitious program?

Arriving in Moscow as the U.S. ambassador in 2005, William Burns, now the C.I.A. director, sent a sober cable, all post-Cold War optimism dispelled. “Russia is too big, too proud, and too self-conscious of its own history to fit neatly into a ‘Europe whole and free,’” he wrote. As he relates in his memoir, “The Back Channel,” Mr. Burns added that Russian “interest in playing a distinctive Great Power role” would “sometimes cause significant problems.”

When François Hollande, the former French president, met Mr. Putin several years later, he was surprised to find him referring to Americans as “Yankees” — and in scathing terms. These Yankees had “humiliated us, put us in second position,” Mr. Putin told him. NATO was an organization “aggressive by its nature,” used by the United States to put Russia under pressure, even to stir democracy movements.

“He expressed himself in a cold and calculating way,” Mr. Hollande said. “He is a man who always wants to demonstrate a kind of implacable determination, but also in the form of seduction, almost gentleness. An agreeable tone alternates with brutal outbursts, which are thereby made more effective.”

La fantapolitica del Corriere



Paolo Valentino per il “Corriere della Sera”

È stata una «voce dal sen fuggita», quella di Joe Biden a proposito di Vladimir Putin che non può più rimanere al potere. Un'altra delle tante gaffe, che hanno costellato la carriera politica dell'attuale capo della Casa Bianca. Come quando nel 2009, alla cerimonia in cui Barack Obama firmò la legge sulla riforma sanitaria, l'allora vicepresidente, trascinato dall'entusiasmo, si lasciò scappare la frase: «Questo è un fottutissimo grande risultato».

Ma questa volta non c'è solo la tendenza incontrollata all'anarchia verbale, che da sempre caratterizza Joe Biden.

E per quanto da ventiquattrore gli «spin doctor» americani si affannino a spiegare che il presidente non intendeva invocare un «regime change» a Mosca, in realtà la frase con cui ha chiuso il discorso di Varsavia sembra piuttosto confermare cosa sperino in cuor loro Biden e la sua l'amministrazione. È una speranza realistica?

Non per il momento, Putin è ancora molto solido, è la risposta che danno esperti e osservatori. Ma quali sono gli scenari possibili per un'eventuale uscita di scena dello Zar? Qui ne analizziamo tre, valutandone dinamiche e probabilità.

Per quanto possa sembrare paradossale in un Paese dove il potere del moderno Zar è quasi assoluto, la Russia è una Repubblica federale presidenziale, con una Costituzione che prevede perfino una procedura di impeachment. Gli articoli 92 e 93 della legge fondamentale russa prevedono infatti che il presidente possa essere rimosso per «alto tradimento o altro crimine grave».

Dovrebbe essere la Duma, la Camera Bassa del parlamento, a iniziare la procedura, che poi andrebbe confermata e conclusa dalla Corte Suprema. Sarebbe infine il Consiglio della Federazione a decidere entro tre mesi se approvare la rimozione o respingerla. «Ma la Duma non lo farà, perché è sotto il pieno dominio di Putin», spiega Christopher Tremoglie, del Washington Examiner , esperto del sistema costituzionale russo.

Le cose però potrebbero cambiare, secondo lo studioso, se l'insoddisfazione popolare crescesse e alcune formazioni parlamentari decidessero di sfruttare il malcontento, trovando una sponda dentro lo stesso Cremlino.

Lo scenario del golpe di palazzo è scritto nella storia russa e sovietica. Dagli Zar a Krusciov, a Gorbaciov, quando la Russia entra in uno smutnoe vremya , un periodo dei torbidi, sono i boiardi che finiscono per sbarazzarsi del sovrano. Brian Taylor, docente alla Syracuse University, è convinto che «con la guerra e soprattutto con il suo andamento catastrofico, le possibilità di un golpe contro Putin siano aumentate».

Ma la quadratura del cerchio è difficile. «Occorre il coordinamento dell'élite politica, dell'esercito e del Fsb, i servizi, che al momento non vedo», ha detto a Repubblica Mark Galeotti. In realtà, il controllo di Putin sui siloviki , gli uomini della forza, buona parte dei quali suoi compagni d'armi dai tempi di San Pietroburgo, è per il momento solido e a prova di tutto.

La fedeltà degli apparati di sicurezza non è in discussione: «Egli sarebbe in pericolo se le élite percepissero che non ha più l'appoggio dei servizi e allo stesso tempo si verificassero proteste di massa della popolazione scontenta», dice Abbas Gallyanov, un analista che ha fatto lo speechwriter per Putin e adesso lavora come consulente politico indipendente. E aggiunge: «Se lo vedessero abbastanza indebolito e si convincessero che possono farlo senza rischi, allora le élite potrebbero tradire Putin. Ma non è per domani».

Qualcuno evoca in proposito perfino lo scenario della «tabacchiera», quella con cui fu avvelenato lo Zar Paolo I, il figlio di Caterina la Grande: quando propose di attaccare le Indie britanniche insieme ai francesi, l'aristocrazia pensò che non fosse più sano di mente e fece scattare il tranello.

«In questi casi ci possono essere accelerazioni improvvise - ha spiegato il Premio Pulitzer Tom Friedman al nostro giornale -. Cifre prudenti dicono che almeno diecimila soldati russi sono stati uccisi.

Dovranno pure restituirne le salme alle famiglie. Oppure non li riporteranno mai a casa, il che è anche peggio. Cosa succederebbe se fra dieci giorni, un mese centinaia di migliaia di persone scendessero in piazza e la polizia non riuscisse a contenerli?».

Lo scenario della strada che costringe il tiranno ad andarsene, modello Ucraina 2014, non è plausibile. Ma gli scricchiolii, nella forma di proteste diffuse e prese di posizioni contro la guerra, si sentono già ora e il proseguimento della campagna militare, combinato con il crescente peggioramento delle condizioni di vita potrebbero fare da catalizzatore.

Dopotutto, ricorda l'economista Sergei Guriev, che lavorò nel team di Putin prima di andare in esilio a Parigi, citando un vecchio adagio russo, «alla fine il frigorifero batte il televisore». E il presidente russo, con i soldi per tenere contenta la popolazione sembra aver ormai esaurito anche gli altri filoni della raccolta del consenso.

E se lasciasse lui... Ammesso che Putin lasciasse di sua sponte, chi potrebbe prenderne il posto? La lista degli usual suspect è nota: il premier Michail Mishustin, il sindaco di Mosca Sergeij Sobjanin. E poi c'è il nome in pectore, quello di Alexeij Djumin, attuale governatore di Tula, ex capo della sicurezza di Putin, che lo considera più di un fedelissimo. Ma di lui parleremo un'altra volta.

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Tutto è lecito anche la violenza. Questa specie di culto trova la sua fusione più sgargiante a 70 km da Mosca. Lì il 22 giugno 2020 è stata inaugurata la Cattedrale delle forze armate russe, con Putin e Kirill presenti

TOMMASO CARBONI (La Stampa)

(ap)

Dicono che la pandemia abbia accresciuto il suo isolamento. Dicono che abbia interrotto gran parte dei contatti con collaboratori e amici. L'attualità lo infastidisce, racconta Mikhail Zygar, giornalista russo, uno dei più attenti osservatori del Cremlino. Putin invece è ossessionato dalla storia. Si interessa a personaggi come Konstantin Leontyev, monaco ultra-reazionario del 19° secolo, che ammirava gerarchia e monarchia, e aveva in sprezzo l’uguaglianza. Una delle poche persone con cui Putin sembra aver trascorso del tempo è Yuri Kovalchuk, un caro amico che possiede una banca e controlla diversi media di propaganda governativa. Secondo i giornalisti russi, i due hanno parlato della missione di Putin di ripristinare l'unità tra Russia e Ucraina. La cosa interessante è che Kovalchuk non è solo un ricco uomo d’affari. È un ideologo. La sua visione del mondo è un miscuglio di «teorie del complotto anti americane, misticismo cristiano ortodosso, edonismo», scrive Zygar. Chissà, Putin potrebbe avere le stesse idee. Ma quali sono esattamente queste idee?
Scandagliando il suo possibile brodo culturale ci si imbatte subito in un tipo pittoresco. Aleksander Dugin, filosofo e politologo, vena mistico-esoterica-reazionaria, i media occidentali ne hanno parlato spesso. L’ultimo articolo, lungo e dettagliato, sul quotidiano israeliano Haaretz: «Chiunque voglia capire la geopolitica e la visione del mondo di Putin, compresa la campagna d’Ucraina, farebbe meglio ad ascoltare una persona: Aleksander Dugin». Per parte sua Dugin, intervistato di recente anche da media italiani, descrive la guerra in questi termini: Non si tratta solo di denazificare il paese e proteggere il Donbass, è una battaglia contro il globalismo liberale, l’Occidente, cioè l’Anticristo». Ma siamo sicuri che Putin lo ascolta davvero? Probabilmente no. Se fosse così influente, l’università statale di Mosca non lo avrebbe cacciato (cosa che invece è successa dopo alcune sue affermazioni fuori misura durante la prima crisi in Ucraina, era il 2014).
L’altro guru che salta fuori spesso è un filosofo del passato. Nel 2015 Putin si è anche speso per rimpatriarne la salma. Ivan Ilyin, deportato dai bolscevichi nel 1922, morto in Svizzera in esilio. Ammirava nazismo e fascismo. Timothy Snyder, storico a Yale, ha scritto un saggio su di lui: «Ivan Ilyin, il filosofo di Putin e del fascismo russo». Altri storici però contestano questo collegamento. Ilyin non è finito nel pantheon del Cremlino per simpatie fasciste, ma per idee in fondo simili ad altri intellettuali russi: pensava che un monarca, piuttosto che leggi o costituzioni, dovesse avere l'autorità assoluta. Snyder però rintraccia in Putin anche un’ideologia più estrema e bizzarra. Quella di Lev Gumilev, secondo cui le nazioni traggono la loro spinta da raggi cosmici, così la volontà di esistere dell'Occidente sarebbe quasi esaurita e la Russia, al contrario, avrebbe ancora l’energia per formare un potente stato slavo che abbraccia l'Eurasia. Insomma, una credenza quasi mistica nel destino delle nazioni, lo spirito trascende ogni cosa e mette da parte leggi, procedure e realtà fisiche.
E se fossero tutti frammenti di un puzzle più grande? In effetti c’è un’ideologia che la cerchia intorno a Putin ha elaborato a partire da metà anni 90; un discorso nuovo, diverso dal patriottismo sovietico e dal nazionalismo russo, che giustifica e chiarisce la politica recente – e non solo quella estera. Si chiama Russkiy Mir, cioè «mondo russo». Putin lo ha reso visibile chiaramente nel 2007, col suo intervento spartiacque a Monaco in cui ha respinto la possibilità di integrare la Russia all’Occidente. L’ idea di comunità e civiltà del Russkiy Mir però non include solo la Russia, ma tutti i “compatrioti”, tutti gli slavi di lingua russa che vivono all’estero, quindi anche ucraini e bielorussi. Sembra un paradosso, ma uno dei pezzi di quest’ideologia è l’anticomunismo. Lenin in realtà è detestato (Stalin invece no, perché dopo la vittoria del ‘45 ha brindato al popolo russo, non al comunismo). L’altro elemento è la fede ortodossa nel patriarcato di Mosca, il patriarca Kirill è uno dei principali alleati ideologici. E poi c’è il disprezzo per l’Occidente, che corrompe, e a cui si oppone l’idea di una civiltà russa eterna da preservare. Tutto è lecito a difesa del Russkiy Mir, anche la violenza. Ce lo ha ricordato Putin pochi giorni fa: «Gli oppositori saranno sputati come moscerini». Questa specie di culto trova la sua fusione più sgargiante a 70 km da Mosca. Lì il 22 giugno 2020 è stata inaugurata la Cattedrale delle forze armate russe, con Putin e Kirill presenti. Già da fuori è abbastanza tetra, dentro si celebra la guerra. Il pavimento è fatto di carrarmati tedeschi fusi. Un mosaico commemora l’invasione della Georgia nel 2008, l'annessione della Crimea nel 2014 e il ruolo delle forze russe nella guerra civile siriana. I soldati combattono, gli angeli benedicono dall’alto. Non sorprende quindi che il patriarca Kirill consideri l’attuale conflitto in Ucraina un affare divino – un suo collega, il sacerdote di Rostov, una città al confine con l'Ucraina, ci è andato giù ancora più pesante; secondo lui, l’esercito russo «sta ripulendo il mondo da un'infezione diabolica».
In questa nuova ideologia, la guerra in Ucraina è stata riformulata come parte di un assalto alla civiltà russa mosso dall’Occidente.
I servizi segreti, dalle cui fila è emerso lo stesso Putin, hanno un ruolo centrale. Putin si affida a loro per le informazioni sul mondo. E nel 2005 una sezione dell’FSB (uno dei successori del KGB), gli fece recapitare un libro titolato “Progetto Russia”. Come racconta l’Economist, il documento avvertiva chiaramente Putin che la democrazia era una minaccia e l’Occidente un nemico.
È chiaro che i timori per la sicurezza legati all’espansione della Nato sono un tema importante per il Cremlino. Ma un’analisi dell’ideologia alla base del putinismo fa dubitare che questo sia il vero motivo dell’aggressione all’Ucraina. Del resto all’epoca del primo blitz russo in Crimea, nel 2014, l’Ucraina non voleva entrare nella Nato, per legge era un paese neutrale. La verità è che per Putin e la sua cerchia l’Ucraina non è una vera nazione, ma una parte fondante del Russkiy Mir. Si era allontanata troppo e andava riportata a casa.

Biden gives speech in Poland (un discorso storico)

Justice Clarence Thomas faces mounting ethical questions




BY 
JOHN KRUZEL  The Hill

Justice Clarence Thomas faces mounting ethical questions after reports of his wife’s aggressive effort to help overturn former President Trump’s electoral defeat have intensified scrutiny over the justice’s refusal to step aside from related cases before the Supreme Court.

In the weeks following the 2020 election, Virginia “Ginni” Thomas, the justice’s wife, reportedly exchanged dozens of text messages with then-White House chief of staff Mark Meadows that appeared to show her strategizing over how to bypass the will of American voters to install Trump for a second White House term despite his loss to President Biden, an outcome she described as an “obvious fraud” and “the greatest heist of our history.”

The latest development, reported Thursday by The Washington Post and CBS, comes a week after Ginni Thomas revealed in an interview that she had participated in the pro-Trump “Stop the Steal” rally that preceded the Jan. 6 riot at the Capitol.

During roughly the same post-election time frame, Clarence Thomas declined to recuse himself from numerous pro-Trump legal challenges that contested the 2020 results. And earlier this year, he cast the lone dissenting vote from a Supreme Court ruling that cleared the way for the House committee probing the Jan. 6 insurrection to obtain Trump White House records.

"Today's revelations mean that now, beyond any doubt, Justice Thomas must recuse from any Supreme Court cases or petitions related to the Jan. 6 Committee or efforts to overturn the election,” Gabe Roth, executive director of the left-leaning court-reform advocacy group Fix The Court, said after the Thursday report.

“Ginni’s direct participation in this odious anti-democracy work, coupled with the new reporting that seems to indicate she may have spoken to Justice Thomas about it, leads to the conclusion that the justice's continued participation in cases related to these efforts would only further tarnish the court’s already fading public reputation,” he said.

The Supreme Court’s public information office and Ginni Thomas did not immediately respond to requests for comment.

Critics say the new details, while shocking, are part of a years-long pattern whereby Ginni Thomas’s political activity has posed an ethically troubling overlap with her husband’s judicial position and raised questions about his impartiality.

Supreme Court justices — unlike judges on lower federal courts — are not bound by a code of conduct and are permitted to decide for themselves whether recusal is appropriate.

In Clarence Thomas’s three decades on the bench, he has never stepped aside from a case due to a real or perceived conflict of interest resulting from his wife’s political activities, according to an analysis by the progressive court reform advocacy group Take Back the Court.

But the couple’s latest entanglement, which comes as the Supreme Court has seen its public image battered in recent years, has drawn particularly intense ire, with some calling for Thomas to resign or even be forced off the court.

“Clarence Thomas needs to be impeached,” Rep. Ilhan Omar (D-Minn.) wrote on Twitter in the hours after news of Ginni Thomas’s text exchanges with Meadows surfaced.

That call was echoed by progressive groups like Women’s March.

"The revelations that Ginni Thomas advocated for the overthrow of our democracy are disqualifying — not just for her as a human being of any decency, but for her husband Supreme Court Justice Clarence Thomas," the group’s executive Rachel O'Leary Carmona said in a statement.

Among the 29 texts exchanged between Ginni Thomas and Meadows was a message dated Nov. 10 — a week after Election Day — in which, according to the Post, Ginni Thomas wrote: “Help This Great President stand firm, Mark!!!...You are the leader, with him, who is standing for America’s constitutional governance at the precipice. The majority knows Biden and the Left is attempting the greatest Heist of our History.”

The report noted that Ginni Thomas may have been in contact with other Trump White House personnel, citing a Nov. 13 text to Meadows in which she mentions reaching out to “Jared,” which may refer to Jared Kushner, Trump’s son-in-law and a former senior White House adviser.

“Just forwarded to yr gmail an email I sent Jared this am,” the text reads, according to the Post. “Sidney Powell & improved coordination now will help the cavalry come and Fraud exposed and America saved.”

Sidney Powell was among the most prominent pro-Trump attorneys who filed numerous post-election legal challenges and frequently took to the airwaves to amplify Trump’s lie that the vote was rigged against him.

According to the Post’s report, a Nov. 24 text exchange showed Ginni Thomas expressing a sense of reassurance after having “a conversation with my best friend” and receiving Meadows’s vow that the “fight of good versus evil” would continue — an apparent reference to the ongoing effort to overturn Biden’s victory.

“This is a fight of good versus evil,” Meadows wrote, according to the Post. “Evil always looks like the victor until the King of Kings triumphs. Do not grow weary in well doing. The fight continues. I have staked my career on it. Well at least my time in DC on it.” The report states that Thomas replied: “Thank you!! Needed that! This plus a conversation with my best friend just now… I will try to keep holding on. America is worth it!”

It was not immediately clear to whom Ginni was referring as her “best friend,” though she and Clarence Thomas have publicly used that term to refer to each other.

As Ginni Thomas worked to help nullify Biden’s electoral win, Clarence Thomas continued to preside on the Supreme Court, never once recusing himself from post-election litigation that reached justices. An analysis by The Hill determined that, between November 2020 and February 2022, Thomas participated in at least nine such rulings without any indication of him recusing.

According to the Post, the Ginni Thomas-Meadows correspondence contains an unexplained gap between Nov. 24, 2020, and Jan. 10, 2021, making it difficult to determine how closely linked Ginni Thomas’s efforts might have been to the three election-related rulings Clarence Thomas participated in during this time.


In January of this year, Clarence Thomas raised eyebrows as the only justice who indicated that he would have granted Trump’s request to keep a trove of his administration's records under wraps. That 8-1 ruling came in a dispute over an effort by the House committee investigating the circumstances of the Jan. 6 attack to obtain Trump-era records from the National Archives.

It was not immediately clear whether any communications from Ginni Thomas to Meadows or any other Trump White House officials were at stake in the case. Meadows handed over 2,320 text messages, including the 29 with Thomas, directly to the Jan. 6 House committee in response to their request.

An attorney for Meadows, George Terwilliger III, did not immediately respond to a request for comment.

Critics say that in light of his wife’s political activities, Clarence Thomas should have recused himself from that case and future matters tied to the Jan. 6 attack. Sen. Ron Wyden (D-Ore.) on Friday went further, adding that Thomas should be recused from any cases related to the 2024 election should Trump run again.

“In light of new reporting from numerous outlets, Justice Thomas’ conduct on the Supreme Court looks increasingly corrupt,” he said. “Judges are obligated to recuse themselves when their participation in a case would create even the appearance of a conflict of interest. A person with an ounce of commonsense could see that bar is met here.”