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Czar Vladimir Putin


Paolo Valentino per Sette – Corriere della Sera

Nulla distingue la casa al numero 12 di Ulitza Baskova, nel cuore di San Pietroburgo, dal resto degli anonimi edifici che le stanno accanto. L’unico segnale è che non è possibile visitarla. Negli Anni 50 era una komnunalka, una di quelle abitazioni nate dalla suddivisione dei grandi appartamenti signorili dell’epoca zarista, dove nell’Unione Sovietica più nuclei familiari convivevano, uno per stanza, condividendo cucina, bagno e corridoio. Vladimir Putin vi è nato e cresciuto, nella città che allora si chiamava ancora Leningrado.

In condizioni così modeste, suo padre era operaio in una fabbrica di treni, che la caccia ai topi in cui si distingueva non era solo il gioco di un’infanzia povera, ma una continua lotta per non farli dilagare. Un giorno il giovane Vladimir ne inseguì uno particolarmente grosso sulle scale con un bastone in mano, fino a costringerlo in un angolo. All’improvviso il ratto gli si lanciò contro sfiorando la sua testa e con un balzo riuscì a fuggire. L’incidente, avrebbe detto Putin nell’unica autobiografia scritta con alcuni giornalisti nel 2000, gli diede una lezione di vita, mai dimenticata: «Ognuno dovrebbe tenerlo a mente: mai mettere qualcuno in un angolo».

La lezione del topo

Il 24 febbraio scorso il presidente russo ha ordinato la più grande azione militare di terra in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Una brutale guerra di aggressione contro l’Ucraina, decisa contro ogni logica razionale, in un azzardo geopolitico dove i rischi e costi si stanno rivelando molto più alti di un’effimera definizione di vittoria. E forse memore proprio del famoso topo, Putin l’ha motivata dicendo di esservi stato costretto, poiché «la Russia non aveva altra scelta».

Andare indietro nella biografia dell’uomo che si è auto-investito della missione di riunificare il Russkij Mir, il mondo russo separato dalla fine dell’Unione Sovietica, ultima incarnazione del sogno imperiale di una Russia eterna, è fondamentale per capirne il mistero. La vita di Vladimir Putin è infatti costellata di “Harte Wendungen ”, le svolte traumatiche dipinte da Paul Klee, che ne hanno influenzato fortemente la personalità, fino a farla scivolare in una sorta di autocrazia paranoica che lo avvicina ai più spietati despoti della storia russa, da Pietro il Grande a Stalin.

La svolta dell’ex hooligan

«Ero un hooligan, un ragazzo di strada», racconta di sé il leader del Cremlino. Così scatenato che un giorno Vera Dmitrievna Gurevich, la maestra della scuola elementare, andò dal padre per parlargli di quel ragazzo molto intelligente ma con la tendenza a perdersi. Il colloquio all’evidenza servì. Perché all’improvviso, all’età di 11 anni, il piccolo Volodia cambiò. Diventò il più bravo della classe in tedesco, iniziò a fare sport. Un naso rotto lo convinse che non era fatto per la boxe.

Fu nelle arti marziali che trovò la vera passione: «Il judo mi ha tolto dalla strada, non so cosa sarebbe stata la mia vita se non avessi conosciuto Anatoly Rakhlin, il mio primo maestro». Con lui ha appreso il kuzushi, movimento che tende a far perdere l’equilibrio fisico e mentale all’avversario per poi rovesciarlo, una tecnica che ha usato anche in politica. L’idea di fare la spia gli venne presto.

Una mattina, all’età di 16 anni, si presentò all’Ufficio del Kgb a Leningrado chiedendo cosa dovesse fare per lavorare lì. «Primo non prendiamo persone che vengono da noi di loro iniziativa» rispose il funzionario «e secondo si viene da noi o dopo essere stato nell’esercito oppure dopo aver studiato all’università». «Studiato cosa?», chiese il ragazzo. «Che so? Legge», disse quello forse con l’intenzione di toglierselo di torno. E così fu.

Nel 1975, fresco laureato in Diritto internazionale all’Università di Leningrado, Putin venne assunto dai servizi segreti sovietici. Cinque anni dopo, ormai tenente colonnello, sposato con l’ex hostess dell’Aeroflot Ludmilla Alexandrovna Skrebneva e già padre di una bambina, fu mandato come capo missione a Dresda, nella Ddr, con l’incarico di raccogliere informazioni su dissidenti e valutare le perfomance dei colleghi. Come nome in codice si scelse Platov, da quello di un generale che comandava i cosacchi nella guerra contro Napoleone. Al violoncellista e grande amico Sergeij Roldugin, che un giorno gli chiese in cosa consistesse il suo lavoro al Kgb, rispose: «Ero uno specialista in relazioni umane». La vita di Vladimir Putin si riassume intorno a quattro città del destino: Leningrado-San Pietroburgo sulla quale torneremo, la tedesca Dresda, Mosca e Sochi sul Mar Nero, vetrina del suo potere imperiale.

La capitale della Sassonia gli è rimasta nel cuore. Anche se è lì che il suo universo cominciò a oscillare. Erano gli anni della perestrojka di Gorbaciov, che i capi comunisti della Germania Est rifiutarono di seguire. La notte del 5 dicembre 1989, meno di un mese dopo la caduta del Muro di Berlino, il tenete colonnello Putin, che da settimane ormai aveva trascorso giorni e notti bruciando documenti riservati, chiamò la guarnigione sovietica di stanza a Potsdam chiedendo aiuto e sollecitando un intervento armato. Una folla inferocita aveva circondato la palazzina del Kgb e minacciava di assaltarla. La risposta fu negativa: «Aspettiamo ordini da Mosca, ma il centro tace».

Quella frase ha segnato per sempre la sua vita. La paralisi del potere e il caos della piazza sono stati da allora i suoi incubi. Come disse nel 2000, l’anno in cui fu eletto presidente della Russia, «in quelle circostanze funziona una cosa sola: devi colpire per primo e colpire così duro che il tuo avversario non dev’essere più in grado di reggersi in piedi». «Avremmo evitato molti problemi» aveva aggiunto «se non avessimo lasciato così frettolosamente l’Europa orientale». Il più macroscopico, secondo Putin, fu il successivo crollo dell’Unione Sovietica, quando la secessione delle Repubbliche, soprattutto di quelle slave, «fece dei russi il più grande gruppo etnico del mondo a essere diviso da confini di Stato». In quella notte nacque probabilmente la missione di volerlo riunificare.

Ritorno a San Pietroburgo

Aveva 38 anni nel 1990, Vladimir Putin, quando tornò sulla Nieva insieme a Ludmilla e alle due figlie piccole, portandosi dietro una lavatrice usata caricata sopra il tetto della Volga. A dargli un nuovo lavoro fu Anatoly Sobchak, il nuovo sindaco e uno dei personaggi più in vista della nuova Russia. Fu lui a cambiare il nome della città da Leningrado all’antico San Pietroburgo.

Diventò il suo vice. Fu nel suo ufficio allo Smolny, dove aveva appeso un ritratto di Pietro il Grande al posto di quello di Lenin, che un giorno della primavera 1991, in attesa di essere ricevuto dal borgomastro per un’intervista, Putin preparò il tè dal Samovar per me e la mia interprete Natasha Petrovna, parlando con molta nostalgia dei suoi anni in Germania. Nella città più europea della Russia nacque la “banda degli amici pietroburghesi”, la filiera in parte legata al Kgb che l’avrebbe accompagnato per il resto della vita.

Lavoravano tutti insieme per Sobchak: il futuro premier e presidente Dmitrij Medvedev, il futuro ministro delle Finanze Alexeij Kudrin, il capo di Gazprom Igor Sechin, il boss dello sport russo Vitaly Mutko, il capo della Guardia Nazionale Viktor Zolotov, quello dei servizi segreti Sergeij Naryshkin. Poi c’erano i compagni di judo, i fratelli Rotenberg, Arkady e Boris, che sarebbe diventati i “suoi” oligarchi.

E non ultimo c’era il proprietario di un ristorante che lui frequentava, Egvenij Prigozhin, detto il cuoco di Putin, miliardario grazie ai catering per il Cremlino e fondatore della Wagner, la milizia mercenaria che interviene nel mondo, dalla Siria alla Libia, in nome e per conto di Mosca. Ma un’altra città del destino si profilò a quel punto all’orizzonte per Putin, che nel 1991, alla caduta dell’URSS, aveva lasciato il Kgb, «la decisione più dolorosa della mia vita». Quando Sobchak, travolto dalle accuse di corruzione, perse le elezioni del 1996, complici i buoni uffici di Kudrin già al ministero delle Finanze, per lui si aprì un posto nell’amministrazione presidenziale di Boris Eltsin.

Gli bastarono meno di due anni per imparare i codici di comportamento non scritti del Cremlino. Discreto, efficiente, di poche parole, sempre con la soluzione pronta. Già nel 1998 Eltsin lo nominò capo del Fsb, erede del Kgb. Sfruttò l’incarico alla perfezione, soprattutto mostrando totale lealtà al capo. Quando il Procuratore federale Yurij Skuratov aprì un’indagine per corruzione sulla famiglia di Eltsin, un video andò in onda improvvisamente su tutte le televisioni russe: mostrava Skuratov senza veli, in azione con due acrobatiche prostitute. Era il più classico dei kompromat nell’arsenale della Lubjanka.

Fu Putin in persona a spiegare in tv che il filmato non era un falso. Skuratov si dimise poche ore dopo. Eltsin lo ricompensò meno di un anno dopo, nominandolo a sorpresa primo ministro. Alla vigilia di Capodanno del 1999, lo designò suo successore al vertice della Russia. Poche ore prima che avvenisse il passaggio delle consegne al Cremlino, Putin celebrò con i suoi ormai ex “colleghi” del Fsb l’anniversario dei servizi sovietici: «Il gruppo che avete mandato in missione di infiltrazione in seno al governo, sta per compiere la sua missione», disse nel brindisi, scherzando ma non troppo.

Il 23 marzo 2000, dopo un breve interim al vertice, Vladimir Putin venne eletto presidente della Federazione russa con il 52,9% dei voti. «Riporteremo l’ordine», fu la promessa. Il suo cruccio era l’onore perduto della Russia, ormai declassata dal ruolo di Superpotenza e privata di quella uvazhenie, il rispetto che per i russi è bisogno esistenziale. Nei primi anni alla guida della Russia, oltre a ricostruire economicamente e politicamente un Paese annichilito dal Far West degli Anni 90, mettere in riga gli oligarchi e reprimere brutalmente la ribellione della Cecenia, Putin aveva avviato un dialogo stretto con gli Usa e l’Occidente, culminato nell’accordo di cooperazione Nato-Russia, addirittura arrivando a teorizzare che un giorno lontano Mosca avrebbe potuto far parte dell’Alleanza.

La svolta avvenne nel 2007, alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, quando lanciò un attacco a tutto campo contro gli occidentali, denunciando l’ordine creato dopo la Guerra Fredda, l’invasione americana dell’Iraq e soprattutto l’espansione della Nato fino ai confini della Russia, agli occhi di Putin un tradimento delle promesse fatte nel 1990 a Gorbaciov. Da quel momento, il leader russo iniziò l’inversione di rotta, avvitandosi in una spirale sempre più autoritaria all’interno, nazionalista e aggressiva all’esterno. Nel 2008 lanciò la prima azione militare nello spazio ex sovietico, occupando l’Abkhazia, territorio della Georgia. Ci sono molti fattori dietro l’involuzione di Putin e la sua metamorfosi in un leader sempre più autoritario. Le primavere arabe e la fine violenta di Gheddafi fecero su di lui una forte impressione. La prima rivoluzione ucraina, quella color arancione, fu un altro segnale devastante per il leader del Cremlino, che nel Paese vicino vedeva un pericoloso esempio di ribellione, rivendicazioni democratiche, caos.

Il fallito reset con l’Amministrazione Obama fu una conseguenza di questo cambiamento personale e politico. Nel 2011, quando da primo ministro (nel quadriennio in cui cedette la carica di presidente a Dmitrij Medvedev) lo incontrò per la prima volta a tu per tu, l’allora vicepresidente Joe Biden corresse radicalmente il giudizio che ne aveva dato George W. Bush anni prima: «L’ho guardato negli occhi e ho potuto vedere la sua anima». Biden ebbe un’impressione opposta: «Signor primo ministro, la sto guardando negli occhi e non credo che lei abbia un’anima». Putin rispose sorridendo: «Vedo che ci capiamo benissimo». Dopo l’annessione della Crimea nel 2014, decisa in seguito alla rivoluzione di Euromaidan a Kiev che lui definì un putsch orchestrato dagli americani, nulla è stato più lo stesso. Le sanzioni occidentali hanno accelerato la sua narrazione di un Paese accerchiato, che gli è valsa altissimi livelli di consenso. La polemica di Putin contro l’Occidente decadente e depravato si è fatta sempre più forte. Mentre all’interno, chi non si allineava come Alexeij Naval’nyj veniva perseguitato e subiva attentati alla propria vita.

Fu sul Mar Nero, nella quarta città del destino, che Vladimir Putin mise in scena la sua nuova dimensione imperiale, con i Giochi Olimpici invernali del 2014, una stravaganza miliardaria pagata dagli oligarchi, che lanciarono la località prediletta da Stalin come nuova capitale diplomatica della Russia. In quegli anni i leader del mondo passarono tutti da lì, da Erdogan, a Netanyahu, ad Angela Merkel, che Putin, conoscendone la paura dei cani, accolse facendo entrare nella stanza il suo labrador. E fu a Sochi che insieme ai suoi generali mise a punto prima l’annessione della Crimea e poi nel 2015 l’avventura in Siria, incoraggiato dai tentennamenti dell’Amministrazione Obama. Scommetteva e vinceva. «Putin è stato fortunato e questo è pericoloso per un giocatore d’azzardo», dice Gleb Pavlovski, politologo che ha lavorato con lui al Cremlino prima di diventarne oppositore.

Sono passati 22 anni dall’arrivo al vertice della Russia. Putin ha cambiato la Costituzione, ipotecando il potere fino al 2036. Il cerchio dei suoi consiglieri si è fatto sempre più piccolo, la sua distanza dal mondo reale sempre più grande. Lo Zar è solo. Il consenso scricchiola, complice una situazione economica in costante peggioramento. La pandemia ne ha accentuato l’isolamento fisico e mentale. È diventato imperscrutabile ai suoi stessi collaboratori. Nessuno sa quali saranno le prossime decisioni. Alla vigilia dei 70 anni, con una condizione di salute diventata segreto di Stato e secondo molti a rischio, Putin ha fretta. Vuole unificare il Russkij Mir, salvare la Russia eterna, rifarne una Grande Potenza. Annientando nel sangue l’Ucraina, la nazione sorella che “pretende” di scegliere da sola il proprio destino, vuole completare la missione. Ma come ricorda Pavlovski, «quando giochi alla roulette russa, pensi che Dio sia con te, fino a quando non arriva il colpo».

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