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Prima c'è stato Donald Trump:


Mario Platero per “la Repubblica - Affari & Finanza


Prima c'è stato Donald Trump: ha rotto con gli alleati per il gusto della rottura e ha destabilizzato i commerci mondiali con la bandiera "America First". Poi il Covid19, che ha impresso un'accelerazione ai vari rivoli dell'economia digitale gettando le fondamenta per cambiamenti sistemici.

Infine è arrivato il vorace attacco della Russia all'Ucraina, l'evento più terribile, perché, oltre a mostrarci civili europei uccisi per strada, ha anche scardinato quel poco che restava della globalizzazione.

«Questo è il momento nel quale le cose cambiano - ha detto Joe Biden prima di venire in Europa parlando alla Business Roundtable, a un'associazione imprenditoriale americana - Ci sarà un nuovo ordine mondiale là fuori e noi dovremo guidarlo. E dobbiamo unire il resto del mondo in questa missione».

Difficile farlo, però, se oltre alla Russia all'appello mancheranno anche Cina e India. Sempre la settimana scorsa alle parole della massima autorità politica americana hanno fatto eco quelle della massima autorità finanziaria, Larry Fink.

Il fondatore di BlackRock, nella sua lettera agli azionisti, ha dato un messaggio molto simile e semmai più esplicito di quello di Biden: «L'invasione russa dell'Ucraina ha messo fine alla globalizzazione come l'abbiamo sperimentata negli ultimi trent'anni».

Questa guerra insomma, non è solo militare, è anche economica, con due sistemi a confronto, democrazie liberali di mercato da una parte, autocrazie e assolutismo dall'altra.

Anche per questo tutti si chiedono: come andrà a finire? Cosa succederà dei nostri processi economici, e di quel che resta della globalizzazione una volta superati gli eccidi scatenati dalla Russia per una catastrofica scommessa con la storia di Vladimir Putin?

Non lo sappiamo, ovviamente. Le difficoltà russe nell'imporsi sull'Ucraina prolungano il conflitto. Si temono reazioni inconsulte da parte di Mosca, magari con l'uso di armi atomiche tattiche o chimiche. Sullo sfondo si allunga l'ombra della Cina. E ha ragione Joe Biden, tutto cambierà.

Ma non si intravede come alla fine della Guerra fredda un modello cooperativo in uscita dal tunnel.

Anzi, si sta profilando un mondo fatto di blocchi, di gruppi di Paesi in concorrenza fra loro, un "multipolarismo competitivo" come lo ha definito Maurizio Massari, il nostro ambasciatore al Palazzo di Vetro, parlando a 1.400 studenti italiani all'Onu. Un multipolarismo che difficilmente si trasformerà, in tempi brevi, in cooperazione.

Del resto, è la stessa retorica di Biden nel suo viaggio in Europa della settimana scorsa, a parlarci di blocchi e di confronto quando ha chiesto che la Russia sia esclusa dal G20. Si tratta del pilastro più avanzato per la gestione della globalizzazione e del multilateralismo su cui poggiava la Pax Americana, lanciato dal Presidente Obama subito dopo la crisi finanziaria del 2007-2009.

Nel suo discorso alla Nato Biden ha anche confermato il contesto sistemico del confronto: democrazie contro autocrazie, con la Cina protagonista di questa equazione a più incognite. Cina che - dice Biden - da una parte sarà punita da sanzioni economiche durissime se continuerà ad aiutare la Russia e dall'altra dovrà essere aggirata, muovendo fuori dai suoi confini catene produttive critiche per l'offerta e la produzione delle democrazie industriali.

Non esattamente un ramoscello d'ulivo. Ma Biden ha capito che sotto attacco in Ucraina, ci sono, in modo indiretto, anche il sistema americano e occidentale, ci sono le grandi aziende che capitalizzano singolarmente quanto l'intero Pil russo e ci sono gli imprenditori americani liberi di spostare i loro orizzonti di affari persino nello spazio.

Per questo Biden chiarisce bruscamente a Pechino e Mosca che alla fine saranno loro a pagare con l'isolamento. All'americana si potrebbe dire "wishful thinking", come dire "speriamo in bene", un auspicio che oggi non basta. Perché quando Biden chiede che la Russia esca dal G20, di fatto chiede la chiusura del gruppo e spacchetta lui stesso la globalizzazione in quei blocchi di Paesi in confronto fra loro.

Non è immaginabile ritrovare oggi quel consenso del G7 del marzo del 2014 quando si lasciò fuori la Russia per punirla dell'annessione della Crimea. Fu quella la presa d'atto formale che la Russia aveva respinto le continue aperture e offerte del post Guerra Fredda per la cogestione globale di un multilateralismo aperto - e cioè l'invito a entrare nel G7 nel 1997, qualche anno dopo l'invito a entrare nel G20 e poi nel Wto, l'organizzazione per il commercio mondiale.

Già allora i semi del disaccordo erano evidenti. L'irritazione e la resistenza russa non erano per l'avanzamento dei confini della Nato, ma perché in cambio della cogestione si chiedeva a Mosca di fare passi in avanti lungo il sentiero delle libertà civili e della democrazia, cosa che Vladimir Putin per forma mentis, convinzione e ego personale non poteva accettare.

Espellere la Russia dal G20 non è come espellerla dal G8. Nel G20 oltre alla Russia ci sono India, Cina e Sudafrica, che nella votazione di giovedì scorso per isolare la Russia all'Assemblea generale dell'Onu si sono astenuti.

È immaginabile che i governi di questi Paesi accettino un'uscita della Russia dal G20 su proposta americana? Più probabile che escano loro. E che credibilità avrebbe un gruppo per la gestione degli equilibri mondiali se uscissero Cina e India, i due Paesi più popolosi al mondo, con l'aggiunta di un simbolo africano e chissà, forse sudamericano con un Brasile che appare ondivago?

Davanti alla prospettiva dei blocchi, sempre nella sua lettera, Larry Fink, con molto realismo, prende atto che per le aziende non sarà facile adeguarsi a regimi economici caratterizzati da percorsi a ostacoli per l'accesso a materie prime (pensiamo al nickel che arriva per l'80% da Russia e Ucraina), a derrate alimentari primarie, come il grano, e all'energia, che oggi, con gli aumenti dei prezzi del greggio, sta soffiando sul fuoco dell'inflazione.

Sarebbe bello insomma pensare di tornare indietro allo spirito del 1992, quando con la fine della Guerra fredda si metteva in cantiere un approccio multilaterale e si staccava quel dividendo per la pace che sarebbe durato per quasi un decennio, portando prosperità e innovazione tecnologia, fino all'attacco alle Torri Gemelle.

Ma indietro non si torna, e se a breve il futuro, sul piano economico, resta incerto, nel lungo termine torneremo a una globalizzazione governata più chiara e trasparente di quella che abbiamo avuto finora. Almeno, questo, è il pronostico di Larry Fink.

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