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IL PUGNO DELLO ZAR


Francesca Sforza per “la Stampa”

«Il peggio deve ancora venire». Così ha detto Vladimir Putin in una telefonata con il presidente francese Emmanuel Macron, e così ha ripetuto anche davanti alla televisione di Stato: «Non ritornerò mai indietro rispetto alla mia dichiarazione che Russia e Ucraina sono un unico popolo. Siamo in guerra contro i neonazisti, distruggeremo l'anti Russia creata dall'Occidente. Nessuno può minacciarci, nemmeno con le armi nucleari».

La guerra continuerà, si farà ancora più dura, sul territorio con i militari e in patria con la propaganda, come dimostra l'attività del governo russo, che si prepara a rafforzare il suo arsenale legale con un disegno di legge che prevede fino a 15 anni di reclusione per qualsiasi pubblicazione di «fake news» riguardante le forze armate. Il provvedimento sarà esaminato alla Duma durante una sessione straordinaria oggi stesso, così come sarà presa in esame la possibilità di inasprire le pene per chi «porta avanti attività contro la sicurezza della Russia».

Non è un'«invasione», non è un'«offensiva», non è neanche una «guerra». Casomai un'«operazione militare», e chi usa altre parole può considerarsi un «agente straniero». Queste le indicazioni contenute nella lettera che si sono visti recapitare ieri dalla procura russa una decina di media indipendenti, due dei quali - Radio Echo Moskvy e Tv Dozhd - hanno subíto restrizioni negli accessi da parte dell'agenzia delle comunicazioni e sono stati costretti a sospendere la programmazione.

Gli altri, per adesso soltanto minacciati di chiusura, sono i siti di informazione politica InoSmi, Mediazona, Svobodnaya Pressa, Krym.Realii, il magazine economico Zhurnalist e il quotidiano Novaja Gazeta, il cui editore è il Nobel per la Pace 2021 Dmitri Muratov.

Una stretta che dà la misura del vento di censura che soffia su Mosca, soprattutto se si guarda al contenuto dei media minacciati, tutt' altro che «eversivo», anche volendo sforzarsi di applicare la logica del censore: InoSmi ieri apriva accusando la Repubblica Ceca di aver fatto credere all'Ucraina che poteva entrare nella NATO e nell'Ue (provocando quindi la reazione russa); Mediazona dava il numero delle vittime comunicato ufficialmente dalla Difesa russa (500 morti e 1600 feriti); Svobodnaja Pressa interveniva sulla rabbia dei commercianti di grano, «scossi dal fatto che Washington abbia comminato sanzioni contro Mosca».

Come ha osservato Galina Timchenko, del sito di news Meduza, basato in Lettonia, «il fine di Putin sembra essere quello di mettere a tacere chiunque non sia d'accordo con lui, costringendolo alla fuga, o riducendolo al silenzio». Del resto, la chiusura di Radio Eco di Mosca parla per tutti: non c'è praticamente giornalista straniero che non abbia incontrato almeno una volta il suo direttore Alexey Venediktov, da sempre impegnato nel denunciare ingiustizie, storture e sperequazioni nella società russa e da sempre però abituato a fare lo slalom con i controllori del regime, usando parole attente, evitando insulti o accuse feroci. «Bastano i numeri - amava ripetere - quelli non sbagliano mai, e sono difficili da mettere in discussione».

In genere erano i numeri, nei servizi di REM a raccontare la Russia: i disoccupati, le cifre delle pensioni e degli stipendi, il numero di bambini negli orfanotrofi. «Se mi sbaglio le autorità possono sempre correggermi e io darò conto della loro opinione», diceva. Ma qualcosa è cambiato, come dimostra peraltro la definitiva chiusura di Memorial, l'ong fondata da Andrey Sacharov che ha documentato i crimini stalinisti (ma anche quelli commessi in Cecenia e nel Caucaso) e che proprio in questi giorni ha ricevuto la sentenza conclusiva del procedimento in corso.

Con la chiusura di Memorial - difesa senza alcun esito da lettere aperte di intellettuali e accademici - in molti si chiedono oggi che fine faranno quei preziosi archivi, raccolti in decenni di duro lavoro. Ma la guerra in corso sta spazzando via questo e altri interrogativi, riducendo tutto e tutti sotto un unico capo di accusa, quello di fiancheggiare il nemico ed essere un «agente straniero», espressione sovietica riportata nell'uso comune come non fosse passato un giorno.

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