Alberto
Pasolini Zanelli
Insomma le sue promesse?
L’interrogativo si pone, anzi si impone, proprio nel momento forse più
difficile degli ormai cinque anni trascorsi dalla sua prima elezione alla Casa
Bianca e mentre si contano soprattutto le delusioni che da lui sono venute in
settori psicologicamente ed elettoralmente importanti del suo Grande Progetto
iniziale (in politica interna, riguardo all’economia) e resta impantanata la
sua riforma sanitaria. Di conseguenza la sua popolarità, mai elevatissima,
tocca il livello più basso. Timidezza, incoerenza, carenza di leadership:
questi i capi di accusa.
E proprio adesso
queste conclusioni vengono messe in dubbio, anzi contraddette, se non
addirittura smentite proprio nel settore più difficile e controverso di tutti:
la politica estera, che stravolge le prospettive. Da poche settimane, anzi da
una manciata di giorni, un intervento militare universalmente definito
inevitabile si è allontanato, una iniziativa diplomatica giudicata “missione
impossibile” ha preso velocità e direzione, raggiunto i suoi primi, concreti
traguardi. La Siria e l’Iran. In una serie di blitz degni della leggenda di
Henry Kissinger, il Segretario di Stato John Kerry saetta nei cieli del Medio
Oriente e dell’Europa, porta a casa le premesse di una conclusione pacifica di
una guerra civile durata più di due anni a Damasco, un accordo nucleare con
Teheran, un chiarimento con l’Egitto e perfino la prospettiva di una ripresa
delle trattative sulla Palestina. La copia dei risultati si spiega anche con il
temporaneo fervore dei contatti “coperti”, per esempio nell’Oman con gli
iraniani, paralleli con gli incontri di Kerry a Ginevra e a Londra.
Ma ad incassare
i successi è in fin dei conti colui che ne aveva più bisogno, Obama, lo stesso
che finora ha pagato le spese degli insuccessi. Lo hanno aiutato, certo, degli
eventi esterni, dall’elezione di un “moderato” come Hassan Rouhani a successore
del “falco” Ahmadinejad a Teheran e l’intensa iniziativa diplomatica di
Vladimir Putin nel Medio Oriente e altrove. Ma non va trascurato un fatto
indiscutibile quanto infrequente: Obama ha cominciato a realizzare, o almeno a
mettere in pratica alla fine del 2013, quello che aveva promesso nel corso
della campagna elettorale del 2008: cambiare le priorità della politica estera
Usa (o almeno la “faccia”), dalla reazione prevalentemente militare a
iniziative soprattutto politiche. Lo aveva esposto più volte, tenacemente, come
programma di azione e soprattutto come punto di arrivo di un “ripensamento”.
Obama aveva avvertito che era sua intenzione “tendere la mano” ai nemici
dell’America e “parlare con ogni leader straniero senza precondizioni”. Egli
aveva insistito che stava per chiudersi un periodo di intensa azione bellica,
appropriata nel “mondo” apertosi l’11 settembre del 2001, dominato da due
guerre importanti – in Afghanistan e Irak – e da una battaglia contro il
terrorismo islamico che ha portato le forze americane anche in altri terreni di
confronto e di battaglia, a cominciare dai Predator a volare e a colpire nei
cieli del Pakistan e dello Yemen. Sul momento non vi erano altre scelte e Obama
lo ha riconosciuto e dimostrato decidendo di rafforzare inizialmente (pur con
l’obiettivo finale di ritirarle) le truppe in Afghanistan e ordinando quel raid
di un commando che portò all’“esecuzione” di Bin Laden. Continuare così, aveva
però sempre ammonito Obama, non era la soluzione migliore: “Parlare duro e
sparare può essere la cosa più facile dal punto di vista politico ma è e non
sarà mai la cosa giusta per la nostra sicurezza”. Il giorno in cui Barack Obama
salì alla Casa Bianca l’America aveva 180mila soldati impegnati in guerre su
suolo straniero e un compito immane nel combattere il terrorismo. Una lotta che
non poteva essere abbandonata ma neppure rimanere l’obiettivo numero uno della
Superpotenza in un momento storico in cui – è ferma convinzione dell’uomo della
Casa Bianca – il teatro principale di confronto si sta spostando dal Medio
Oriente all’Estremo Oriente, a causa non solo della possente crescita della
Cina ma anche delle tensioni e delle ostilità che la accompagnano e che
richiedono più che mai, secondo Obama, una forte presenza Usa nel Pacifico. Un
altro aspetto della revisione in corso è una presa di distanza dalla strategia
di “cambio di regime” nei Paesi scomodi od ostili all’America. Dalle parole ai
fatti. In Siria e in Iran.
pasolini.zanelli@gmail.com