Jfk, giovane e potente: i segreti di un mito universale
Il 22 novembre del ’63 il presidente Kennedy moriva a Dallas. Quegli spari fermarono il mondo e lo cambiarono per sempre
di VITTORIO ZUCCONI
Se Jack fosse ancora vivo oggi, avrebbe novantasei anni. La legge del tempo avrebbe devastato quel volto da ragazzaccio irlandese col ciuffo nel vento di Hyannis Port e corrotto quella mente rapida e ironica capace di battute indimenticabili come il suo giudizio sardonico sulla presidenza: "La paga non è granché, ma non ci sono mai problemi di parcheggio e si può andare a lavorare a piedi". Basterà ricordare la lunghissima e triste agonia di Ronald Reagan, il 'Kennedy della Destra', disperso per cinque anni nel labirinto dell’Alzheimer per capire quale crudele privilegio la sua fine fulminea sia stata.
Immaginare un JFK vecchio, ridotto alla partecipazione a funerali altrui e a spot di beneficenza è impossibile. Un secondo mandato, se anche fosse riuscito a farsi rieleggere nel 1964, vittoria niente affatto scontata, lo avrebbe risucchiato nella pania della 'maledizione del secondo giro' e avrebbe probabilmente intaccato la magica polverina sulle ali della farfalla. Troppi, e troppo grandi, erano i problemi che quei suoi primi mille giorni avevano rinviato, dalla cancrena di un Vietnam dove lui aveva autorizzato l’assassinio del presidente in carica Diem, ai diritti civili che bollivano irrisolti sotto il suo pragmatismo moderato, per pensare che Jack sarebbe uscito dalla Casa Bianca nel 1969 nello splendore degli abiti nuovi dell’imperatore.
Non era soltanto la sua giovinezza, ad avere incantato un mondo che aveva provato un brivido di ammirazione e di invidia per l’avvento di JFK alla presidenza. Kennedy era la giovinezza dell’America 1960, l’apogeo di una superiorità materiale e morale degli Stati Uniti d’America che finalmente trovava la propria icona favolosamente telegenica dopo quell’Eisenhower, figlio della carta stampata e della radio. Quando fu ucciso, la generazione dei figli della guerra era diventata adolescente, i loro padri e madri avevano l’età del nuovo presidente e nella sua sonora incoscienza, nella sua retorica che aveva dato volto alla televisione neonata, anche i sovietici avevano intravisto, dopo il brivido dell’olocausto nucleare per Cuba, l’ipotesi di una coesistenza arcigna. Era un incosciente, dicevano gli avversari, un millantatore. Quando annunciò lo sbarco sulla Luna, non soltanto non esistevano progetti per l’operazione, ma neppure i sistemi di guida, i metalli per costruire e pilotare quei razzi.
Si volle credere, per i quasi mille giorni del suo percorso, che finalmente la guerra, e la sua eredità, fossero finite, che le follie maccartiste si fossero consumate per sempre, che l’America bianca, puritana e protestante avesse 'passato la torcia' al prodotto della più disperata fra le migrazioni europee, quella cattolica irlandese. Che un soffio di quell’Europa umiliata e distrutta da se stessa nel trentennio fra le due guerre suicide si fosse trasmesso anche ai conquistatori-liberatori, attraverso non soltanto Jack, ma attraverso Jackie, Jacqueline Bouvier, il suo sangue francese, il suo gusto per l’eurochic, i (finti) tailleur Chanel, la cura nell’arredamento, dopo decenni di dignitose first lady in abiti da sermone domenicale e gentiluomini in redingote o giubbotto da generale a riposo.
Avremmo scoperto soltanto decenni dopo, quali verità nascondesse la coppia perfettina, il velista scarmigliato e la madamina impeccabile sotto il 'cap' da cavallerizza. Non si sapeva, anche se lo si intuiva, che quella 'Norma Jean' ciucca fradicia che miagolava "Happy B’day Missser Pesident" era stata l’amante sua e del fratello, in un torbido triangolo. I giornalisti, chiusi nel complice maschilismo del tempo, ignoravano, segretamente approvavano, sicuramente invidiavano, le gare a inseguimento attorno alle scrivanie della Casa Bianca per acchiappare 'Fiddle' e 'Faddle', le due segretarie che fingevano di sfuggirgli. Erano taciuti gli amori con Judith Campbell, la pupa di Cosa Nostra, un po’ amante e un po’ corriere fra JFK e Sam Giancana, il padrino di Chicago che tanto si era adoperato per fargli battere Nixon nel novembre 1960, facendo meritare alla metropoli su lago il celebre slogan del: "Venite a a Chicago, la città dove potete votare anche da morti".
Chi credette, come Seymour Hersh nel suo 'Il lato oscuro di Camelot' o Robert Dallek nella 'Presidenza incompiuta', di sbriciolare la farfalla inchiodata non aveva capito che non era la santità ascetica, ma l’umanità crocefissa dai proiettili di Dallas il motore della leggenda. Le sordide rivelazioni, le confessioni di fanciulle che avevano sacrificato entusiasticamente il fiore della propria purezza per Jack, i misteri sul suicidio di Norma Jean Marilyn Monroe, la complicità spregiudicata di Jackie — anticipatrice di Hillary quasi 40 anni dopo con il suo Bill Clinton — avrebbero alimentato, non spento, quella fiaccola che brucia sulla tomba di famiglia ad Arlington.
I misteri sulla vita e sulla morte di John F. Kennedy sono diventati il carburante che tiene viva la fiamma sulla quale, il 22 novembre, anche Obama andrà a pregare, sapendo che un presidente afro non sarebbe stato possibile se mezzo secolo prima il monopolio dei bianchi protestanti anglo non fosse stato spezzato da Jack l’Irlandese. Lo aveva capito benissimo Ronald Reagan, che oggi contende a Kennedy il primato nella popolarità postuma e che ammirava, e studiava, il predecessore trucidato, soprattutto nella sua capacità di infondere ottimismo.
Tutto, anche il martirio del fratello Bobby nel 1968, il disastro di Ted nelle paludi di Chappaquiddick con la morte di una innocente segretaria, la fine del bambino accanto al feretro, di John John, inabissato con la moglie e la cognata nella acque dell’Atlantico con il proprio aereo ormai in vista delle tende bianche di Hyannisport, avrebbe acceso i colori sulle ali della farfalla inchiodata che avrebbe continuato a volare. Forse non sapremo mai fino in fondo chi, e perché, e se, qualcuno abbia ordito una cospirazione per ucciderlo a Dallas e non è detto che la verità finale sia nei 1.170 documenti secretati fino al 2017 che il successore — o la successora — di Obama potrà, ma non dovrà, pubblicare.
Ma si può sperare che un lembo di mistero rimanga sempre, come quelle nebbie di pianura che resistono anche al sole, per coprire come un sudario quello che davvero morì il 22 novembre del 1963 affinché potesse vivere ancora: l’American Dream.