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Sic transit gloria mundi !

(Riceviamo da Rosario Amico Roxas e pubblichiamo)
Ogni tanto, quando manca la terra sotto i piedi, ecco che riemerge Marina, salvifica, tuttologa, figlia di fiducia di cotanto padre.  Ma è proprio l'essere la figlia di fiducia che sta il suo limite. Nessuno può mettere in dubbio che Marina sia al corrente dei traffici paterni, dei siti di fiducia dove giacciono i capitali frutto delle truffe allo Stato, di cui è emersa solo la punta dell'iceberg.
Marina è al corrente di tutto, come confidente o come fiduciaria, ma il momento in cui dovesse assumere responsabilità più concrete, si ritroverebbe a transitare dal ruolo di confidente/fiduciaria e quello meno comodo di complice e correa, ben informata  dei tanti altri reati sui quali la magistratura indaga e che non sono ancora diventati di pubblico dominio .
Per queste valutazioni credo proprio che Marina cercherà di tenersi lontana da simili impicci, anche se ne è coinvolta, ma, ancora, in grado di difendersi dall'accusa "non poteva non sapere".
Il malloppo è gigantesco, la prescrizione ha salvato Silvio dai precedenti 10 e passa anni di truffe allo Stato, beccandolo solo per gli ultimi tre anni, ma la liquidità conseguita esiste, ben nascosta  nelle isole felici in conti anonimi cifrati dei quali la stessa Marina conosce anche i minimi particolari, ma non può usufruirne, perchè facendolo svelerebbe l'arcano e cadrebbe nella sua stessa trappola, dentro la quale c’è il restante delle malvessazioni
Se non interviene con una discesa in politica, allora quel malloppo rischia di diventare cartaccia da non toccare, pena la galera... un bel dilemma.
Altri pargoli in grado di gestire l'affaire non ce ne sono, non lo è Piersilvio, privo del "quid"; non lo + Barbara, che agguanterebbe il tutto e sparirebbe dalla circolazione portandosi appresso mezzo MIlan.
Gli altri figli sono immaturi e guardano al padre come il produttore di quattrini, ma non accetterebbero coinvolgimenti superiori alle loro modeste capacità.
E allora ….?   Sic transit gloria mundi !  (Imitazione di Cristo, Libro 1, Cap. 3, Par. 6.)
Rosario Amico Roxas

Straordinari questi italiani.

Straordinari questi italiani. Sono andati a votare con nelle orecchie il turbinio dei bombardamenti vocali degli antieuropeisti di destra e di falsa sinistra come nel caso del M5S.

Sapevano che il loro voto aveva una valenza soprattutto domestica: dare un sostegno al governo in carica da tre mesi ed al giovane premier Renzi.

Oppure affossare anche questo tentativo di dare un'amministrazione corretta alla povera Italia. Ipotesi che non prevedeva uno scenario di salvataggio, ma solo un "Muoia Sansone con tutti i Filistei!".

Il 41 per cento di voti andati al PD ed al suo segretario premier sono la conferma che la maggioranza del popolo italiano sa ragionare e utilizzare al meglio l'unico diritto che definisce una democrazia, ovvero la titolarita' di scelta per amministrare la cosa pubblica.

Nel polverone di contumelie e di volgarita' che ha contradistinto gli interventi dei principali attori politici il cittadino medio ha saputo riconoscere che il giovane Renzi e la sua squadra di governo parlavano un linguaggio diretto, comprensibile e gli hanno dato fiducia.

Ma c'e' anche un altro elemento che ha giocato un ruolo determinante nella scelta generalizzata degli italiani a favore del Partito Democratico: il 'body language', ovvero il linguaggio del corpo.

Tra uno scalmanato di 60 anni infervorato in una inarrestabile sequela di ingiurie e espressioni da taverna da una parte ed un anziano signore logorato dai propri errori giudiziari e da una vita dissoluta il giovane elettore alla prima esperienza di cabina, il maturo elettore assillato dal morso della crisi ed il vecchio elettore oppresso da una esistenza da tirare avanti con pochi euro al mese di pensione hanno fatto una scelta di buon senso. Quello che manca a larga parte della classe politica.

E hanno fatto credito ad uno che ha  meno di 40 anni, che quando parla si capisce cosa dice e che sta dimostrando di giocarsi il suo futuro perche' crede nel futuro dei giovani come lui.

Nel 2008 milioni di americani hanno votato un 'abbronzato' proprio sulla base del 'common sense'.

Nonostante il razzismo strisciante che ancora esiste in tante regioni degli Stati Uniti, il giovane Obama ha saputo raddrizzare una situazione economica drammatica ereditata dall'ineffabile George W. Bush, ha chiuso due guerre, ha stanato ed eliminato Osama Bin Laden il terrorista mondiale, sta cercando di ridare un ruolo alla prima potenza economica mondiale.

Grazie Italiani con la testa.
Oscar

Elezioni europee, una proposta per il governo Renzi


di Guido Colomba
Geithner ha scoperchiato per primo il pentolone dei rapporti tra Usa ed Europa. Perchè lo ha fatto a distanza di quasi tre anni dagli avvenimenti? Vi sono due risposte. La prima riguarda la politica europea di Berlino. Al vertice di Barcellona del G20 Geithner tentò invano di convincere la Merkel a cambiare linea anzichè puntare ad una austerity che puntualmente ha messo l'Europa in ginocchio (ricordiamo che Trichet alzò addirittura i tassi). Un'Europa debole non conviene alle imprese americane. La seconda risposta riguarda la linea preferenziale della Merkel verso Mosca specie in tema di politica energetica. Risale a quel periodo la decisione di Obama a favore dello shale gas. Da quel momento è cambiata la geopolitica degli Usa. Putin se ne è accorto in tempo e sa di avere poco tempo a disposizione. Sta giocando a scacchi ma la partita è persa in partenza poichè anche l'accordo con la Cina richiede molto tempo per realizzare i gasdotti ed avrà scarso impatto in termini finanziari. Nel frattempo entro tre anni gli Usa riforniranno l'Europa di gas. Dunque l'ostacolo è il cancelliere tedesco. Un modo per indebolirlo è stato parlare dell'Italia e delle manovre della Merkel contro i governi italiani. Tremonti parla ora di una forte esposizione delle banche tedesche verso la Grecia e la Spagna. Ma ai vertici europei e del G20 Tremonti non fiatò. Da allora è passata molta acqua sotto i ponti. La stessa Bce ha fallito l'obiettivo di mantenere al 2% il tasso di inflazione ed ha consentito che i 1020 miliardi Ltro prestati quasi a tasso zero alle banche europee fossero utilizzati (con enormi guadagni) per acquistare titoli del debito sovrano lasciando a secco l'economia reale. Berlino è all'origine di questa folle politica che gli economisti americani, Krugman in testa, hanno stigmatizzato a più riprese. Le elezioni europee diventano lo spartiacque di questa situazione. Di qui la proposta per il governo Renzi di ridurre il contributo percentuale che l'Italia versa per il funzionamento dell'Ue con una rinuncia parziale ai fondi regionali liberando così risorse per gli investimenti finalizzati alla ripresa. I 54 miliardi, aggiuntivi alle spese di funzionamento, che l'Italia ha versato per gli aiuti ai paesi in crisi (Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna, Cipro) hanno fatto crescere il debito italiano. Nè l'Italia ha ottenuto nulla in cambio. Una situazione paradossale (a fine anno il contributo di Roma salirà a 61 mld. di euro pari a 83 miliardi di dollari). A Washington si guarda con inquietudine all'indebolimento dell'Italia in un momento così cruciale nel ruolo strategico del Mediterraneo. Sul tappeto vi sono molte crisi (Siria, Turchia, Crimea, Libia) che richiedono un ruolo attivo. Va ricordato che la Germania e i suoi amici del Nord Europa hanno bloccato quattro anni fa il tentativo di un accordo politico tra UE e Paesi nella sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Una decisione miope alla luce della "primavera araba" e della successiva crisi libica. Ecco perchè agli euroscettici si deve rispondere con una politica attiva dove l'Italia può dare un forte contributo senza più rinvii.
     

Lettera aperta all'elettore indeciso


Gentile Connazionale,
queste elezioni europee in Italia, viste dall'altra sponda dell'Atlantico, sono un motivo di grande preoccupazione per chi vive negli Stati Uniti senza avere reciso il cordone ombelicale con la sua Patria di origine.

Gli esperti che discettano sulle varie gazzette dicono che il futuro del Bel Paese dipende da Lei.
Per noi americani abituati alle semplificazioni spesso eccessive la scelta che Lei si trova a dover compiere e' abbastanza chiara.

1)
Il dovere di andare a votare non e' mai stato cosi' imperativo. Non votare significa rintanarsi in quella taverna dove primeggiano le urla, l'odore del vino e della birra e il puzzo acido del vomito che viene dai cessi.

2)
Votare per il pregiudicato Grillo significa dare potere a quella componente del popolo italiano che e' sempre stata contro qualcuno senza proporre scelte fattibili. Il teatro popolare e' caratterizzato da maschere di servitori pronti a randellare l'odiato padrone e mai disposti a prrendere il suo posto assumendosi la responsabilita' di mandare avanti la baracca. Lo sfascismo ha assunto nei decenni colorazioni diverse; dal nero al rosso. Ma si tratta di una malattia endemica dura da estirpare.

3)
Votare per il pregiudicato Berlusconi significa non rendersi conto del fatto che venti anni all'insegna della politica televisiva fatta per abbindolare le masse di nullapensanti ha ridotto la penisola all'ultimo posto tra i membri dell'Unione Europea. Tralasciando la scia di laidi modelli di comportamento che hanno convinto milioni di giovani e meno giovani che tutto si vende e tutto si acquista. Basta pagare il prezzo giusto, salvo i numerosi saldi di fine stagione.

3)
L'attuale governo Renzi e' in carica da tre mesi. Di cose ne ha fatte e programmate se si pensa ai tempi biblici di democristiana memoria. Renzi si fa odiare per il suo impegno nel rinnovare un'Italia corrotta da continue tensioni create dalle medievali corporazioni in cui e' sostanzialmente divisa.

4)
Di fronte a queste alternative di fondo per un residente negli USA la scelta sembrerebbe obbligata.

A meno che non si voglia contribuire a creare un'ulteriore falla nella barca che sta iniziando ad imbarcare acqua.

Caro Elettore ed Elettrice indecisi: ogni tanto la vita ci pone di fronte a scelte indilazionabili.

Proviamo a prendere esempio dal coraggio di quelle migliaia di migranti che affrontano a caro prezzo un pericoloso viaggio verso la liberta' che troppo spesso si conclude in tragedia.

Con molta stima per qualsiasi decisione vorra' prendere.
Oscar
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Caro Oscar,
leggo la tua lettera dedicata all’elettore indeciso, io sinceramente non lo sono perché andrò a votare come sempre, poiché per me non è un imperativo ma è il mio dovere di cittadino di questa scassata Repubblica.
Ancora una volta mi spiace ma non sono d’accordo con te: questo è il bello della tanto abusata, molto spesso a sproposito, parola Democrazia, ed è il bello del tuo blog.
Caro Oscar, non c’è bisogno che lo confessi, poiché è risaputo, lo hai capito dal tipo di interventi che spesso faccio su queste pagine,  che “Io sono tra quei milioni di “NULLAPENSANTI” che hanno sostenuto il “pregiudicato”, più un epiteto che un aggettivo,come la sinistra ama definire il nemico Berlusconi (non l’avversario), e che alla stessa ha però fatto comodo per coprire le proprie magagne, gli scandali insabbiati, e le incapacità a governare, tanto per essere succinti.
Il Cavaliere in questi anni l’ho votato anche, e sicuramente, per il quotidiano e stillicida accanimento della vostra parte, una reazione, la mia, come quella di altri che lo hanno sostenuto.
Con ciò non ch’io abbia approvato tutto quello che ha fatto dal punto di vista politico e morale, perché, grazie a Dio, contrariamente alla tua pessima affermazione, la testa ce l’ho, come ce l’hanno milioni di persone che la pensano come me.
Scusa se sono sincero ma la tua definizione “NULLAPENSANTI” rappresenta l’ego massimo della spocchia di sinistra, quella spocchia che ha castrato e continua a castrare l’élite radical chic della nostra società assisa sul Monte Olimpo, con la pancia piena ed in compagnia degli dei.
Elite dalle grandi capacità d'illudere le masse con l'abilità delle parole e delle illusioni, alla faccia di tutti quelli che si spaccano la schiena dalla mattina alla sera e che continuano a credere che Liberté Egalité, Fraternité siano ancora parole sacre ed attuali.
Io domani, comunque, voterò Flavio Tosi, il bravo sindaco della mia Verona.
Con la solita stima,
Massimo Rosa
rosapresservice@yahoo.it
P.s. Quello che è significativo della mediocrità dei protagonisti della nostra politica, nessuno escluso, è che dell'Europa non gliene freghi alcunchè, poichè tutti impegnati nelle beghe da cortile di casa. Per l'Europa ci vuole altra gente. Ma per fare questo occorre crerae prima gli europei e non viceversa.
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Oscar, ti sei scordato di citare il PREGIUDICATO RENZI... o forse il danno erariale da 6 milioni che ha causato non conta??? certo 6 milioni sono proprio bruscolini in confronto alle cifre berlusconiane... certo è una sentenza non definitiva... ma ti ricordi le polemiche che ha fatto il centro sinistra sulle prime condanne di Berlusconi? Ti ricordi le critiche che gli muoveva il centro sinistra??? La coerenza del centro sinistra ora trasformatosi in PD dove sta? Ma la verità è che il centro sinistra non è mai stato coerente e non ha mai pensato veramente ai cittadini... in 22 anni di alternanza centro sinistra - centro destra, una valanga di oscurità ha travolto l'Italia, uccidendo la speranza di giovani e meno giovani, di anziani che prendono le pensioni minime su cui gravano tasse allucinanti per non avere niente in cambio. In un paese dove la Corte Costituzionale dichiara illegittimo tagliare pensioni e stipendi d'oro ma è lecito tagliare posti di lavoro ai comuni cittadini, tipo insegnanti e medici, dove la politica è solo di bandiera e fine a se stessa, non credo che ci sia molto da dire e da scegliere.
Indeciso io? per nulla, molto consapevolmente la scelta l'ho già fatta.
Buon Voto
Roberto Ciccoli
robertociccoli@gmail.com
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non ho mai votato 5 stelle e non lo voterò neanche ora; Berlusconi ha definito Grillo pregiudicato e assassino; Lei si è fermato a metà strada, lanciando il sasso e nascondendo la mano : che squallore!
Franco Pietrobono
frpietro37@gmail.com
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Elezioni europee: Francia ultima spiaggia

Alberto Pasolini Zanelli
da Parigi
Arrivati alla vigilia del voto per il Parlamento europeo è forse opportuno “ri-centrare” il periplo, l’analisi, le previsioni. Non verso il Centro politico, che difficilmente uscirà vincitore da questa prova, bensì verso due centralità: una geografica e l’altra economico-politica. Il primo è un ritorno alle origini: se l’Europa può e deve avere un centro, esso può essere solo qui. Altrove non può nascere e non può rimanere. È così da secoli. La Germania può godere di frenetiche “esplosioni” economiche seguite da oscillazioni e seguita da molti (come accade oggi) ma mai da tutti. Tutte le guerre che hanno funestato il nostro continente hanno in qualche modo coinvolto la Francia, altrimenti erano conflitti grossi ma parziali. E il moderno ideale di Europa, quella che ancora ci affascina anche se in questo periodo sempre più ne disperiamo, è nata non da considerazioni finanziarie ma dalla coscienza di due governi, tedesco-occidentale e francese, che non si poteva andare avanti così a distruggersi a vicenda in guerre evitabili.
Si chiamavano Konrad Adenauer e Robert Schumann gli scopritori dell’inevitabile. Si chiamavano Francois Mitterrand e Helmut Kohl coloro che rinnovavano il rito passeggiando la mano nella mano fra le tombe di Verdun, dove cadaveri tedeschi e francesi sono mescolati. Il Parlamento europeo funziona, quando può, a Strasburgo, che più volte è passata da città tedesca a francese. E fra le varie celebrazioni del centenario della Prima guerra mondiale, la più significativa avverrà nel vagone di Compiègne, la carrozza ferroviaria che ospitò ancora nel 1940 l’umiliazione della resa della Francia alla Germania e cinque anni dopo della Germania alla Francia. Qualcuno se lo ricorda ancora, fra gli eurofobi e perfino fra coloro che non vedono altro che i tassi di cambio.
E la Francia, più della stessa Germania, può riassumere il continente, le sue angosce, le sue illusioni e le sue delusioni. Potrà nascere una confederazione baltica con capitale Berlino, ma non sarà l’Europa. Potranno allacciarsi patti mediterranei ma non saranno europei.
Una centralità che si ritrova anche nell’ammasso di cifre, talvolta contraddittorie e comunque superficiali, dei sondaggi nei vari Paesi alla vigilia del voto. Il governante oggi più impopolare d’Europa non siede a Madrid, né ad Atene, né a Londra, né a Roma bensì a Parigi. A Francois Hollande spetta lo scomodo onore di godere della fiducia di un solo francese su cinque al punto che egli ha avuto l’obbligo ma anche il coraggio di annunciare recentemente che, se le cose continueranno ad andare così, rinuncerà a candidarsi per la rielezione all’Eliseo quando quel turno verrà. L’“olandese” aveva strappato l’Eliseo un paio di anni fa a Nicolas Sarkozy, l’“ungherese”. Oggi come oggi l’onda degli entusiasmi sospinge Marine Le Pen, francese di sangue e de vieille souche bretonne. Ma il nuovo primo ministro Manuel Valls, il “catalano” dalla mamma italiana e il nuovo sindaco di Parigi è Anne Hidalgo. Il melting pot d’Europa, se non si vuole andare fino a Napoleone.
Centralità, però, soprattutto nella ricerca della identificazione delle fonti del malessere europeo di oggi. Molte sono riconducibili ai meccanismi del Mercato, alle imprevedibili miscele fra il salto nel vuoto della globalizzazione e gli oscuri miracoli delle nuove tecnologie, ma se si vuole rimanere, come si dovrebbe, nel campo politico, non è più un caso che l’erompere della crisi, almeno in Europa, coincida anche con la perdita di orientamento della Sinistra. Non quella degli antichi sogni e incubi del comunismo ma quella che avrebbe dovuto subentrarle ben salda nell’ambito democratico: il “terremoto capitalista” non ha trovato una risposta dove essa era necessaria: la sinistra europea paga lo scotto di essere rimasta assente nella formulazione e nella spiegazione di fenomeni come la globalizzazione. I portatori dell’esperienza socialista e socialdemocratica hanno minimizzato l’importanza dei problemi, mancando di comprenderli o decidendo di ignorarli e hanno preferito parlare d’altro e scaricare sugli avversari tradizionali la responsabilità, la guida e la capacità propositiva, trascurando per cominciare la protezione di quei ceti che per tradizione la sinistra avrebbe dovuto proteggere, ispirare, guidare. O forse si avvera una vecchia “profezia” che ricordo da un colloquio più di trent’anni fa con un potente ispiratore di Mitterrand e, dunque, di Hollande: “La politica socialdemocratica non ha molto avvenire se tempo verrà in cui si fermerà l’espansione economica. La sinistra vive praticamente della ripartizione dei frutti della crescita. Finché la torta aumenta si può operare per dare ai lavoratori una fetta maggiore: della crescita, non della torta. Quando questa diminuisce non rimane niente da dividere se non la torta stessa. Se si tentasse di farlo sarebbe la fine della pace sociale. Oppure si finirà col dovere passare il potere ai conservatori, che potranno cercare di gestirla meglio”.

Prodi: quel mare di petrolio che giace sotto l'Italia...

Articolo di Romano Prodi pubblicato da "Il Messaggero"

Come i governi precedenti anche l’attuale governo non sa dove trovare i soldi per fare fronte ai suoi molteplici impegni. Eppure una parte modesta ma non trascurabile di questi soldi la può semplicemente trovare scavando - non scherzo - sotto terra. Ci troviamo infatti in una situazione curiosa, per non dire paradossale, che vede il nostro Paese al primo posto per riserve di petrolio in Europa, esclusi i grandi produttori del Mare del Nord (Norvegia e UK). Nel gas ci attestiamo in quarta posizione per riserve e solo in sesta per produzione. Abbiamo quindi risorse non sfruttate, unicamente come conseguenza della decisione di non utilizzarle. In poche parole: vogliamo continuare a farci del male.

Nonostante l’attività di esplorazione delle nuove riserve sia ormai bloccata da un decennio, con un numero di metri perforati inferiori a un decimo di quelli del dopoguerra, l'Italia potrebbe - sulla base dei progetti già individuati - almeno raddoppiare la sua produzione di idrocarburi (petrolio e metano) a circa 22 milioni di tonnellate equivalenti petrolio entro il 2020. Solo con questo significherebbe alleggerire la nostra bilancia dei pagamenti di circa 5 miliardi di euro ed aumentare le entrate fiscali dello Stato di 2,5 miliardi ogni anno. Si attiverebbero inoltre investimenti per oltre 15 miliardi, dando lavoro alle decine di nostre imprese che operano in ogni angolo del mondo ma sono impossibilitate a farlo nel loro Paese.

Parlo naturalmente di produzione potenziale perché, per mille ragioni, petrolio e metano restano dove sono. Mi rendo evidentemente conto che tra le mille ragioni ve ne sono parecchie che debbono essere prese seriamente in considerazione perché la sicurezza e la protezione dell’ambiente sono per tutti una priorità. Il principio di precauzione ha la precedenza su tutto. La risposta ai rischi industriali non è tuttavia l’impedimento a fare, ma la capacità di governarli. Il nostro Paese ha conoscenze, tecnologia, esperienza per riuscirvi ed ha una delle più severe legislazioni a tutela dell’ambiente e della sicurezza dei territori. Nel nostro caso ci troviamo invece di fronte a situazioni incomprensibili perché il principio di precauzione viene usato in modo da proibire qualsiasi utilizzazione delle risorse del sottosuolo e viene adottato per difendere l’idea che ciascuno abbia il diritto di veto nei confronti di qualsiasi iniziativa.

Questo comportamento impedisce in primo luogo la possibilità di ricavare un’ulteriore quantità di energia dai giacimenti di terraferma della Basilicata e delle regioni limitrofe. L’esempio più clamoroso riguarda tuttavia i giacimenti in mare. Non intendo prendere in considerazione risorse energetiche che si trovano vicino alla costa e che potrebbero quindi provocare ipotetici danni agli equilibri geologici del territorio. Mi limito ai giacimenti in mare aperto, dove questo pericolo non sussiste. Il caso più clamoroso riguarda tutta la dorsale dell’Adriatico, così promettente da essere oggetto di un grandioso piano di sfruttamento da parte del governo croato, che ha recentemente chiamato a gara le grandi compagnie energetiche internazionali per sfruttare un giacimento che, come ha dichiarato il ministro degli esteri del Paese a noi vicino, può fare della Croazia il “gigante energetico d’Europa”.

La gran parte di queste potenziali trivellazioni si trova lungo la linea di confine delle acque territoriali italiane, al di qua delle quali ogni attività di perforazione è bloccata. Si tratta di giacimenti che si estendono nelle acque territoriali di entrambi i Paesi ma che, se non cambierà la nostra strategia, verranno sfruttati dalla sola Croazia. Visto che il bicchiere è uno solo non vedo perché, come è stato ironicamente scritto, la bibita debba esse succhiata da una sola parte. Gli esperti sono concordi nel dire che non vi è nessun rischio ma, in ogni caso le conseguenze dell’estrazione del metano non possono essere diverse se essa viene fatta dagli italiani o dai croati. Se siamo convinti che vi siano pericoli, abbiamo l’obbligo di fare appello a un tribunale o a un arbitrato internazionale. Se questo non è il caso non vedo perché non dovremmo affrettarci a fare quello che stanno facendo i nostri vicini.

Identica è la situazione delle sostanziose risorse petrolifere molto probabilmente sepolte nel mare tra la Sicilia e Malta. Come ho già sottolineato non si tratta di energia immediatamente disponibile perché occorrono alcuni anni di lavoro per poterla utilizzare. Tuttavia gli investimenti comincerebbero subito, mentre i recenti eventi in Ucraina e in Libia dovrebbero spingerci ad aumentare la nostra futura sicurezza energetica, sia attraverso la produzione interna sia facilitando l’arrivo di gasdotti, oleodotti e la costruzione di impianti di gassificazione.
Abbiamo deciso di essere fuori dal nucleare, stiamo gettando una quantità di risorse non certo aumentabili nelle energie rinnovabili e siamo tuttavia lontani dalla sufficienza energetica. Cerchiamo perciò di utilizzare in fretta gli strumenti che abbiamo. L’Italia non è povera di petrolio e di metano, ma assurdamente, preferisce importarli piuttosto che aumentare la produzione interna. Nell’ultimo decennio abbiamo pagato all’estero 500 miliardi di euro per procurarci la necessaria energia. Un lusso che non possiamo più permetterci.

Le burocrazie (dell'Italia e dell'Europa) paralizzano il Paese

Guido Colomba
Cosa farà la Ragioneria dello Stato? Riuscirà a bloccare (negando la copertura o rinviando i decreti attuativi) anche questi tentativi di dare ossigeno bancario all'economia reale? La notizia riguarda i debiti non pagati dallo Stato con un ritardo tale da rischiare a breve la procedura di infrazione a Bruxelles. Un tema caldo alla vigilia delle elezioni europee. E' in atto il pressing parlamentare al Senato per estendere il pagamento dei debiti della PA, (di cui ancora non si conosce l'importo esatto). L'obiettivo è di estendere la platea degli aventi diritto al piano dei pagamenti perfezionando il ricorso alle banche con la cessione dei crediti con garanzia dello Stato. Anche il sistema degli incentivi avrebbe questa possibilità. In sostanza con i crediti certificati le imprese potrebbero rivolgersi alle banche ed ottenere finanziamenti anche per i debiti in conto capitale. Un'altra modifica vorrebbe estendere agli enti locali e alle Asl commissariate o sottoposte a piani di rientro la possibilità di certificare i crediti vantati dai fornitori. Finora tutti questi tentativi hanno avuto un andamento a singhiozzo. Su 90 miliardi stimati dalla Banca d'Italia, lo Stato ha pagato tra il 2013 e il marzo del 2014 circa 25,6 miliardi di euro. Inoltre, come ha accertato Giavazzi già nel 2011, tutto il sistema degli incentivi vale circa 72 miliardi di euro. Questa enorme cifra spesso trova difficoltà all'incasso reale. Ecco perchè l'Italia ha la necessità di una buona amministrazione ordinaria senza dover ricorrere necessariamente a nuove leggi che spesso aggiungono burocrazia a burocrazia in un paese che già galleggia su oltre 150mila leggi e ancor più numerosi regolamenti attuativi. Spesso questa montagna di carta resta chiusa nei cassetti. Una testimonianza ulteriore di questo stato di paralisi amministrativa è data dalle opere pubbliche. L'Italia è ultima in Europa. Negli ultimi dieci anni si è speso meno di Francia, Germania, Spagna e Inghilterra. In quattro anni (dl 2009) si è perso il 30%. Il governo stima (Def) in 20 miliardi l'anno il costo aggiuntivo della logistica per la mancata realizzazione delle grandi opere. Se si va a scavare si scopre che extracosti e ritardi (in media dieci anni per completare un'opera) fanno lievitare le spese del 27%. Eppure la Tavridurrebbe la tratta Torino-Napoli da 3ore e mezza a 2 ore e cinquanta minuti. Altri 5 miliardi di euro non spesi derivano dalla mancata attuazione dei provvedimenti economici dei governi Monti e Letta con un impatto stimato dello 0,5% di mancata crescita economica. Il Pil del primo trimestre sarebbe dunque aumentato senza i freni della burocrazia. Il Paese è paralizzato non solo dalla burocrazia italiana ma anche da quella europea. Squinzi, da diversi mesi,  invoca una nuova governance. L'Italia ha contribuito ai fondi europei per 55,6 miliardi ma non li utilizza (la Spagna con 34 versati ne ha utilizzati 41,3). A fine 2014 il contributo dell'Italia ai Paesi dell'UE crescerà a circa 61 miliardi. Nel frattempo, oltre a non utilizzare i fondi europei, l'Italia viene pesantemente sanzionata per procedure di infrazione su più fronti. E' evidente che Renzi è chiamato al difficile (ma indispensabile) compito di porre termine a questa situazione. Se il problema è strutturale perché mai l’Italia, paese fondatore, accetta queste regole chiaramente sottovalutate per anni dalla Farnesina? Altri Paesi in altri momenti hanno “fermato l’orologio” per difendere i loro interessi vitali. 

Elezioni europee: Grecia

Alberto Pasolini Zanelli
da Atene
La parola “proemio” può essere consentita perché si riferisce a un evento che è al contempo raro ed antico. La Grecia, che quasi tremila anni fa inventò il termine e la realtà della democrazia, connotato principale dell’Europa, è andata a votare con un paio di giorni di anticipo sugli altri Paesi del continente. E così può offrire dei risultati, per quanto atipici, oltre che dei pronostici. Non ci ha dato invece una sorpresa: hanno vinto quelli che era facile pronosticare vincitori, i partiti della protesta, primo fra tutti Syriza, il cui leader Alexis Tsipras, è candidato alla presidenza della Commissione Europea come leader dell’intera Sinistra. Ha vinto ad Atene e in gran parte delle province, comprese le più remote isole dello Ionio e dell’Egeo, sconfiggendo quasi ovunque i partiti di governo, socialista e liberal-conservatore, cioè le formazioni politiche cui è toccato il penoso dovere di tenere aperta la bottega alle condizioni imposte dall’Europa merkeliana e dai Poteri europei e planetari.
Non è una sorpresa: gli umori ellenici erano noti da tempo, espressi non soltanto negli slogan delle dimostrazioni ma anche con i sassi che più volte sono volati nella piazza centrale di Atene, massime in occasione della visita della Cancelliera di Berlino dell’autunno scorso. Si è votato per ora per le amministrazioni locali. Se gli umori non cambieranno in pochi giorni, se i greci voteranno allo stesso modo nelle elezioni per il Parlamento europeo, la confraternita della protesta partirà in testa. Non è un buon auspicio, non è una sorpresa. È una piccante curiosità che il candidato vincitore ad Atene si chiami Gavrill Sakelaridis, omonimo di quel Gavrill Princip, l’uomo che cent’anni fa uccise a Sarajevo l’Arciduca d’Austria dando così il via alla Prima guerra mondiale. Una curiosità, certo, ma l’espressione di un malumore diffuso. Con la scheda invece che con la pistola. Ma anche un richiamo per chi ha memoria di storia di un’altra ben più importante coincidenza. Il primo “no” all’Europa viene dal Paese e nella lingua di chi inventò quasi tutte le parole che descrivono gli ideali europei e planetari. Si parla molto nell’ultimo paio d’anni delle Piazze, dal Tahir al Cairo alla Maidan di Kiev. A qualcuno era già venuta in mente, all’esplodere della “crisi del debito” in Europa, una “modesta proposta”, evidentemente solo cartacea: una soluzione a questa tragedia greca che è poi anche la nostra attraverso una modifica delle leggi sul copyright. Ogni volta che un uomo di governo, un teorico, un semplice candidato a qualsiasi carica grande o piccola dal Mediterraneo all’Artico, avesse pronunciato o scritto una di quelle parole-chiave, “democrazia”, “aristocrazia”, “oligarchia” , “isonomia” eccetera avrebbe potuto o dovuto pagare una piccola cifra all’erario greco. Pochi mesi di una campagna elettorale in Francia o in Germania o anche in Italia avrebbe fornito all’erario ellenico abbastanza per ripagare tutti i suoi debiti e per far ripartire il conteggio da zero.
Non era una proposta, naturalmente. Semmai un sogno da filologo, al meglio un’espressione di gratitudine. Anche solo proposta, senza illusioni concrete. Un salario di gratitudine a chi creò l’Europa come è, anche con i suoi difetti, anche con la sua storica demagogia (un’altra voce del lessico ellenico), comunque una qualche manifestazione di solidarietà. Forse sarebbe bastato che gli statisti del Portogallo o della Lituania, i potenti dalla Cancelleria di Berlino alla City di Londra sentissero l’obbligo morale di portarsi un interprete ed emettere i loro dinieghi nel lessico e nella sintassi di Socrate o di Eschilo. Senza dimenticare il Vangelo. O almeno in greco rinnovare la triste memoria di quell’Ouki che Atene oppose a un ultimatum, purtroppo italiano, nell’ottobre del 1940.


L’India si è capovolta.

Alberto Pasolini Zanelli
L’India si è capovolta. L’espressione non è esagerata: sono stati quattrocento milioni di votanti, la maggioranza assoluta dei chiamati alle urne, su ottocento milioni di elettori a capovolgere i rapporti di forza nel più popoloso Paese democratico del pianeta. Non è cambiato solo il governo: è cambiato il sistema, non nel senso che le istituzioni siano in pericolo, ma perché è un’intera nuova classe dirigente a salire al potere, spazzando via rapporti di forza che possono essere definiti secolari dal momento che risalgono a ben prima che l’India conquistasse la sua indipendenza nel 1947. Era nata per opera di una élite illuminata, di una dinastia colta, di una ideologia “laica” non priva di simpatie per il socialismo; e adesso è al potere una formazione tradizionalista, nazionalista, integralista e decisamente populista. La Prima Famiglia dell’India, fondata Nehru è passata alla storia sotto il nome di Gandhi, il Partito del Congresso aveva preparato, voluto e negoziato il trasferimento dei poteri dall’impero britannico e si era trasmesso il potere, con pochissimi “intervalli”, per due terzi di secolo. Gandhi come vessillo, Nehru come fondatore, un’altra dinastia di Gandhi a gestirla, producendo figure storiche come Indira, la premier assassinata e curiosità come Sonia, la ragazza piemontese che ereditò il potere e seppe, almeno fino a ieri, gestirlo e distribuirlo. L’India dei Gandhi era, come metafora oltre che letteralmente, una nazione di “Bramini”, la casta superiore nel millenario sistema di caste, unico per l’India.
Adesso è arrivato l’“uomo del popolo”, Narendra Modi. Al posto di un’aristocrazia laica, un fervido induista; al posto di una classe dirigente vagamente socialdemocratica, un leader che punta molto sulla libera iniziativa, in competizione con la Cina per una nuova leadership mondiale, di un partito che già dall’opposizione seppe avviare l’esperimento “liberale” che ha fatto dell’India uno dei “miracoli” del passaggio fra i due millenni e che ha subito un “rallentamento” allarmante per le sue abitudini e invidiabile per le nostre: negli ultimi dodici mesi il reddito nazionale è cresciuto “solo” del 4,5 per cento. Il primo plauso viene dunque dal mondo economico, l’allarme risuona da altri angoli del Grande Paese. Il futuro secondo Modi attrae, il passato di Modi preoccupa. In un Paese così profondamente religioso ma con tante religioni e dunque “obbligato” ad essere laico, egli introduce l’eredità di quel movimento nazionalista indù che, soprattutto agli inizi, si era rifatto a modelli dell’Europa totalitaria. Il suo fondatore era un ammiratore di Mussolini, le sue giovani leve erano e sono tuttora addestrate a una obbedienza pronta e assoluta di stampo più germanico che romagnolo, il leader stesso è stato accusato di una qualche sorta di complicità in uno dei tanti drammi provocati da opposti fanatismi religiosi. Narendra Modi era alla sua prima carica importante, governatore dello Stato del Gujarat quando uno dei tanti incidenti prese un aspetto quasi genocida. Correva il 1992 e il neoeletto parve volere incoraggiare le violenze invece che reprimerle. Ne uscì un pogrom che causò la morte di oltre mille persone, quasi tutti musulmani. Non era il primo e non fu l’ultimo caso del genere, ma le dimensioni e un precedente angoscioso gli diedero una risonanza straordinaria. Era stato un giovane attivista di quel partito ad assassinare il Mahatma Gandhi.
In seguito Modi adottò e mantenne uno stile e una ideologia più moderata, ma la sua ascesa verso il potere nazionale allarmò ben presto molti musulmani, che a loro volta affluirono alle urne contribuendo a un livello che molte antiche democrazie europee invidiano: oltre il 60 per cento. Un record, così come le sono dimensioni della vittoria di Modi. Che ha fatto il possibile nella campagna elettorale per attutire certi ricordi e diffondere una nuova immagine di se stesso. Di esperto economista e, nella misura in cui ciò è possibile in India, di “laico”. Uno dei suoi slogan più noti era una chiara promessa, riferita a uno dei problemi peggiori dell’India, la carenza di strutture igieniche. Se vincerò le elezioni, disse Modi, “farò costruire prima le toilette e poi i templi”.


L'Europa alle urne. Londra



Alberto Pasolini Zanelli
da Londra
Se l’affluenza dovesse riflettere esattamente l’interesse degli elettori per una chiamata alle urne, le Isole Britanniche dovrebbero avere fra i quozienti più bassi. Non sono e non sono mai stati degli europeisti appassionati, al punto che hanno seccamente rifiutato di adottare l’euro; hanno sempre preferito e contrapposto una blanda “zona di libero scambio” alla “Europa carolingia” di cui tanto si è parlato fra Parigi e Berlino.
Questa volta, invece, l’interesse degli isolani sembra destinato a superare quello dei “continentali”. Ma neppure in questo caso per zelo unitario bensì per i motivi opposti: a muovere gli “inglesi” alle urne europee c’è l’antica spinta separatista, questa volta moltiplicata per tre. Fra il 15 marzo e il 18 settembre tutto o parte dell’elettorato verrà consultato in tre diverse occasioni con tre domande diverse nella sostanza ma molto simili nella forma. Il voto per il Parlamento europeo potrebbe dare il risultato più clamoroso tra tutte le altre ventisette tribù del nostro continente. È possibile, anzi probabile, che i grandi partiti tradizionali, i conservatori, i laburisti e i liberali, vengano superati e sconfitti da una forza politica nuova nel cui nome c’è tutto il programma: Partito dell’Indipendenza del Regno Unito. Indipendenza, si intende, dall’Europa. Contemporaneamente cresce però un altro partito di contestazione: quello Nazionalista Scozzese, che propone e quasi intima, dunque, non già l’Indipendenza del Regno Unito ma quella dal Regno Unito e dunque la rinascita di una Scozia sovrana. Ma in Scozia è attiva una terza contestazione: quella di due isole che ne fanno parte ma sono pronte, anzi prontissime, a rendersi indipendenti dalla Scozia. I motivi della dissidenza numero tre sono molto simili a quelli della numero due e si riassumono in una sola parola: petrolio. La Scozia se ne vuole andare dall’Inghilterra (e dal Galles) perché è lei ad avere i giacimenti petroliferi e vorrebbe godersene indivisa e indisturbata i pingui frutti. Ma gli abitanti delle Orkney e delle Shetland posseggono in realtà la parte maggiore del petrolio “scozzese” e non vedono perché debbano essere “sfruttati” da un governo ad Edimburgo in maniera analoga a quello in cui gli abitanti di Edimburgo si sentono sfruttati da un governo a Londra.
Questa contesa essenzialmente di interessi è però ammantata, come è buona regola da quelle parti, da profonde rivendicazioni dalle radici in una storia molto antica. Che la Scozia sia stata conquistata dagli inglesi con la forza è ben noto: la contesa è stata davvero all’ultimo sangue, incluso quello di una regina decapitata per ordine della parente seduta sul trono un po’ più a Sud. È meno noto al di sotto della Manica che i fieri isolani delle Shetland e delle Orkney sono diventati scozzesi in una data che essi considerano molto recente: nel 1468. E non furono conquistati con le armi bensì furono un dono nuziale del re Cristiano I di un altro Regno Unito, quello di Danimarca e Norvegia, come parte della dote del matrimonio della figlia col re Giacomo III di Scozia. Pare che non abbiano mai smesso di sentirsi norvegesi e non scozzesi così come gli scozzesi non si sono mai sentiti inglesi. Non parlano un dialetto gaelico ma una fiera parlata germanica, non indossano il kilt e sventolano la loro bandiera. Sono insomma almeno altrettanto “scozzesi” degli scozzesi nei confronti degli inglesi. Per completare le diversità non sono chiamati alle urne (gli abitanti sono in tutto 45mila) ma prenderanno le loro decisioni in base al voto degli altri. Essi puntano sul fatto che una sconfitta degli “europeisti” di Londra o una vittoria dei nazionalisti di Glasgow avrebbe come conseguenza automatica la caduta di tutti i legami. Pronti gli inglesi di andarsene da Bruxelles, gli scozzesi di dire addio a Londra, ai fieri isolani di lassù potrebbe venire in mente di ricongiungersi con i loro cugini di Copenaghen (magari nella forma di una semiautonomia che la Danimarca concede già alle isole Faroe’) oppure di Oslo, anche perché la Norvegia è oggi il Paese più ricco d’Europa e nelle loro vene scorre lo stesso Oro Nero.
Si potrebbe pensare che si tratta, dopotutto, di “quattro gatti”; ma possono bastare, se non a decidere per gli altri sessanta milioni di concittadini, a dare una spintarella a un numero sufficiente di costoro per fare crollare la fragile associazione con l’Europa. Di cui la Norvegia ha sempre rifiutato di far parte ed è quindi la vera isola del Mare del Nord.

Press Conference del Ministro Mogherini a Washington. E i Maro' ?


Poveri ma belli: quanto vale la bellezza?


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di Alessandro Petti                                                    

Tutte le rilevazioni statistiche - italiane, europee, internazionali – ci documentano che l’Italia di oggi è  molto più povera  dell’Italia del 1990, quando i principali indicatori socio-economici ci posizionavano quasi allo stesso livello dei paesi più avanzati dell’Unione Europea (quindi del mondo).
Che cosa è accaduto in questi ultimi 25 anni, duri e difficili per tutte le nazioni, ma che sembrano essere stati ancora  più difficili e duri per noi in particolare, laddove ovunque in Europa, persino in Spagna e Grecia, si colgono sensibili segnali di ripresa dalla crisi?

Per quanto tutto - anche la religione, come ci sta insegnando questo grande Papa - abbia una dimensione politica e sociale, non toccherò questa volta alcun tema strettamente politico. Per sviluppare, invece, la tesi che solo la Cultura (e la sua dimensione politica, come appena detto) potrà fare del 2014 e degli anni a seguire la grande occasione per vivere un futuro nuovo e diverso, contribuendo in modo determinante a trasformare la ‘moltitudine’ protestataria  di oggi in un ‘popolo’ con un progetto.
 Come? Come si può trasformare in PIL  e progresso il tesoro rappresentato dalle nostre ricchezze culturali?
Ed è possibile inserire in bilancio la Cultura, considerando che siamo il Paese con la più alta densità e qualità di siti culturali del mondo? 

La ricchezza e il patrimonio prodotti dalla filiera culturale italiana, tenendo conto degli incassi di musei e monumenti  e dell’indotto che gira intorno a questo settore, sono stimati in oltre 200 miliardi di euro: una ricchezza di cui la nostra  ‘Corte dei Conti’  ha chiesto ora di  tener, per l’appunto, conto, valutandone il rating: stimandone e quantificandone cioè il valore. Con ciò aprendo un’istruttoria nei confronti di una delle principali società internazionali di rating, la terribile Standard & Poor’s, che nel 2011 – è bene ricordare – ci ha declassato tra i paesi di second’ordine del mondo, con un danno subito in termini di spread, pressione fiscale, severi controlli della Commissione Europea stimabile in circa 250 miliardi di euro.

A fare il calcolo di quanto vale la ricchezza del nostro patrimonio culturale – dall’artigianato agli alberghi, a tutta la filiera culturale, indotto compreso - ci ha provato un recente studio realizzato da Unioncamere e Fondazione Symbola (“Io sono cultura. L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”), che l’ha stimata in 214,2 miliardi di euro: un vero e proprio tesoro pari al 15,3% del PIL, con un fatturato di oltre 130 miliardi di euro!

Siamo dunque “Poveri ma belli”, come recita il titolo di un famoso film di Dino Risi (1957) che così bene potrebbe forse ancora descrivere la situazione in cui si trova il nostro Paese?
No. La nostra ‘bellezza’ purtroppo non basta. La nostra arte, la nostra storia, i nostri straordinari paesaggi purtroppo non bastano.
Insomma, con un numero di poveri che raddoppia di anno in anno, di giovani inoccupati e di disoccupati in costante crescita - grazie anche all’austerità dettataci da un’Unione Europea guidata da una più che interessata Germania -  tutta insieme la nostra  principale ricchezza nazionale  (dell’ambiente e della natura, dei beni artistici e culturali delle nostre cento città) non basta, non riesce a creare opportunità di occupazione e lavoro per il Paese. Tutto rimane al livello di solo ‘potenziale’.

Il perché lo ha bene sintetizzato, in un’intervista  a ‘Repubblica’ (del 6 febbraio us), il Presidente di Federculture, l’associazione delle aziende pubbliche e private che operano nel settore: “Essere belli non basta. Al di là dei tagli negli investimenti sulla cultura, manca una politica di sviluppo e la capacità gestionale nel fornire offerta.  Ancora non ci rendiamo conto che senza la tecnologia non si va da nessuna parte: dei 3.800 musei presenti sul territorio solo il 3% ha un’applicazione per lo smartphone, solo il 6% è dotato di audioguide o dispositivi digitali. La convivenza tra pubblico e privato  non è scandalosa: è necessaria”.

Non abbiamo consapevolezza che ”il patrimonio storico-artistico e di paesaggio di cui siamo dotati è parte del capitale collettivo della nazione”, come ha scritto Paolo Leon sulla rivista del Mulino ‘Economia della cultura’;  ciò che genera una incapacità tutta italiana di organizzare un sistema turistico e di beni culturali integrato e di comunicarlo in modo moderno ed efficace. 

Non vi potrà essere, in conclusione, crescita e ripresa economica e sociale, quindi sviluppo, se la “classe dirigente” alla guida del Paese non porrà, tra le priorità, in uno sforzo congiunto di tutti i Ministeri coinvolti (Economia, Beni culturali, Istruzione) lo sviluppo e la valorizzazione dell’immenso patrimonio naturale, paesaggistico, museale e turistico che è la nostra ricchezza e bellezza: la nostra Cultura.
                                                                                                                           

Bce, l'altra faccia della crisi europea


 
European Central Bank headquarters (Eurotower)

di Guido Colomba

Per primo Trichet ha dato l'esempio. Quello di non capire la gravità della crisi "subprime" tanto da aumentare il costo del denaro. Poi nell'estate del 2011 è arrivato il nuovo presidente della Bce, Mario Draghi, che ricopriva la carica di governatore della Banca d'Italia. Cosa è accaduto da allora? Molti economisti, tra cui Krugman, sono molto critici. Le banche centrali di Usa (Fed), Londra e Giappone, hanno finanziato il sistema economico senza con ciò alimentare l'inflazione. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: crescita economica, occupazione in forte ripresa, utili delle imprese tornati ai livelli pre-crisi. La Bce ha fatto il contrario consentendo un credit crunch disastroso. Siamo in piena deflazione, la stretta creditizia strangola le imprese, la disoccupazione è a livelli mai visti, intere filiere industriali rischiano di scomparire. Il costo per l'Italia ( ha perso un quarto della produzione industriale con un 1,2 milioni di disoccupati in più) è molto salato come ha ben documentato  Tabellini (Sole 24 Ore -12 maggio). Purtroppo, nonostante queste evidenze, la Bce continua a non agire. Il timing indicava l'opportunità di un intervento QE (riduzione dei tassi, acquisto di titoli di Stato e di collateral bancario privato) almeno sei mesi prima delle elezioni Ue del 25 maggio. Ora è tardi. E lo sarà ancora di più nei prossimi mesi perchè uscire dalla deflazione non sarà facile. Le responsabilità di Draghi sono evidenti. Innanzitutto per non aver contrastato i diktat tedeschi. Altro che indipendenza della Bce dalla politica. La verità è che gli interessi della Germania e dei paesi del Nord Europa hanno fatto premio all'interno della BCE. Purtroppo, in Italia si tende troppo a lodare chi ha il potere. In genere le lobby sono specializzate in questo mestiere. Basti pensare che l'ex ministro Grilli, assunto (decisione formalmente ineccepibile) da una grande banca internazionale, mostra scarsa attenzione al conflitto di interessi proprio mentre si tornano a cavalcare le privatizzazioni. Ma il costo ulteriore di uno shock deflazionistico è un tema ancora inesplorato. Ai cultori della "macroeconomia istituzionale" poco importa l'economia reale (l'ex ministro del Tesoro, Saccomanni, nel giugno 2013 disse che "non erano rinvenibili tagli della spesa pubblica...). Non si deve confondere l'indipendenza con l'assenza di controlli verso i supertecnici o i mandarini dello Stato (oggi la GdF è andata al Mef per fuga di notizie). Vale l'esempio Usa dove alle audizioni del Presidente della Fed i congressisti esaminano il suo operato e gli chiedono conto di come stia attuando il suo mandato. La Bce ha fallito l'obiettivo sulla stabilità dei prezzi basata su un tasso di inflazione del 2%. Siamo sotto l'1%: la differenza di un punto percentuale vuol dire che tra il 2012 e il 2015 vi è stata una "leva deflazionistica" del 3%. Ciò fa salire il debito pubblico di quasi 4 punti percentuali pari a oltre 60 miliardi. Una cifra, precisa Tabellini, superiore all'intera "manovra appena varata dal governo Renzi". Con l'aggravante di ripetersi ogni anno. A questo onere di finanza pubblica si aggiunge il costo ben più salato che colpisce il settore privato nel quale, come denuncia il Censis di De Rita, l'area della quasi povertà si accresce ogni anno. Manca una politica economica europea che consenta effetti redistributivi. Per Berlino questa ipotesi avrebbe "effetti distorsivi" sulle economie nazionali. Una apparente "neutralità politica" che sta strangolando l'Italia. 
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Molto belli i due articoli di Colomba e Pasolini Zanelli. Concordo pienamente. 
Maurizio V.  Torino