Alberto Pasolini Zanelli
da Berlino
Angela Merkel non
sarà proprio, non ancora, la padrona dell’Europa. Ne sta diventando, però, il
simbolo. Una volta tanto è lei che assomiglia al continente “unito” e non il
contrario. Nell’ultimo paio di mesi è diminuita cinque chili. Ha applicato a se
stessa la dieta severa dell’Austerity. È un modo di più per dare il buon
esempio, per prevenire le voci secondo cui la sua Germania predicherebbe e
razzolerebbe male. Adesso aspetta, una volta di più, una consacrazione dalle
urne, poco dopo la faticata rielezione dello scorso settembre. Questa volta
però il Parlamento il cui controllo l’attende non è quello che conta come il
Bundestag di Berlino: è l’assemblea politica di un’Europa i cui contenuti
politici si sono affievoliti negli ultimi anni, non solo e non tanto per colpa
sua quanto seguendo il suo stile. Dovrebbe essere per lei il momento, se non
del trionfo, almeno del riposo. Una sconfitta nelle elezioni per il Parlamento
europeo avrebbe potuto, dieci o quindici anni fa, mettere in crisi in qualche
modo il governo di una delle sue province. In questo caso la Provincia Grande,
prima per abitanti, reddito, compattezza, volontà, fermezza. In qualche modo
una “rivincita”, un ritorno al passato. Non a quello più recente evocato con
astio e impropriamente, bensì ad altre situazioni del passato, più antico. La Germania riunificata dopo
il crollo del Muro diventa sempre di più “nordica”, prussiana. Ha un
cancelliere e un presidente della Repubblica che vengono dall’area del Baltico
e viene in mente un detto più orgoglioso che festoso: “Essere prussiani probabilmente
non è un piacere, ma di certo è un onore”. Quel calendario riporterà alla
memoria tra qualche settimana il centenario dello scoppio della Prima Guerra
Mondiale, riassunto nei “cannoni d’agosto”. Lo commemoreranno tra l’altro i
leader della Germania e della Francia e sarebbe bello se quel ritrovarsi fosse
un abbraccio sincero come quello che unì sui campi di Verdun, Helmut Kohl e
Francois Mitterrand. Questa volta è più probabile che assomigli, nel nucleo
centrale, a un colloquio fra due banchieri, uno in condizioni fiorenti, l’altro
costretto dalle ansie a un esercizio in più di Austerity.
In realtà gli
interlocutori veri di Angela Merkel nel 2014 non appartengono a questa Europa e
tanto meno al suo deludente teatrino di Strasburgo: sono ancora una volta la Russia e l’America, come se
niente fosse. L’America che vuole convincere la Germania a prendere una
volta di più la testa, almeno come responsabilità, in una Guerra Fredda in
sedicesimo per dei pezzettini di terra all’Est. E la Russia che a quell’appello
contrappone freddi calcoli, forse neppure del tutto esatti ma abbastanza per
essere ascoltati. La reginetta dell’euro ha a che fare con i padroni del
dollaro e il dittatore di un rublo che significa in realtà petrolio. Il
proseguimento del merkelismo intransigente dipenderà più da come ci si
districherà da questa rissa più che dalle scelte o dalle proteste degli elettori
di un Parlamento che ha ancora meno poteri del solito.
Non sono i Beppe
Grillo e neanche le Marine Le Pen a far spostare l’ago della bilancia, anche
perché le differenze dell’opinione pubblica nelle ventotto Europe sono in
realtà minime. La “voglia” di scontro con Vladimir Putin è pressappoco la
stessa in Germania o in Francia, in Gran Bretagna o, ed è il dato più
singolare, negli Stati Uniti. A Berlino i socialdemocratici non rinnegano gli
abbracci fra Putin e l’immediato predecessore della Merkel alla Cancelleria,
Gerhard Schroeder. In tutti questi Paesi i “no” superano, non di molto, i “sì”,
lasciano larghi spazi al compromesso. Con quattro sole eccezioni: due rocce per
“falchi” e due lande per “colombe”. Queste ultime sono l’Ungheria e l’Italia,
le prime la Polonia
e, sorprendentemente, la Svezia. Ma
il voto per l’assemblea di Strasburgo non avrà nessuna conseguenza neppure su
questi atteggiamenti. Vi si potranno ascoltare, al massimo, echi di malumori
ormai antichi. E qualche nostalgia più bizzarra che malinconica. Per esempio il
ricordo dell’“operaio Koeppe”. Quello che una decina d’anni fa, disoccupato
nella sua Goinsdorf, trovò il lavoro a Ravenna. Un Gastarbeiter dei tempi in
cui in crisi c’era la
Germania e l’Italietta dava una mano.