Alberto Pasolini Zanelli
Una sorpresa in più
nel “tabellone” della politica americana e della campagna elettorale
presidenziale, subito dopo quella “personale” che ha rivelato la forza di
attrazione di un candidato repubblicano che poche settimane fa era completamente
escluso dalle ipotesi e dai paragoni: Donald Trump, naturalmente, l’uomo di
estrema destra che mette in difficoltà l’intero schieramento conservatore, che
pareva consolidato, oltre che secondo il “crinale” ideologico e la valutazione
personale del presidente Obama, anche dalla posizione, unanime questa incluso
Trump, sulla crisi nel Medio Oriente e soprattutto sulla valutazione del
trattato fra Stati Uniti e Iran, firmato un paio di settimane fa e che entro un
mese dovrà essere ratificato dal Congresso ed entrare in vigore.
Il voto e il
dibattito che lo precede sono di un’importanza decisiva non solo per il
giudizio di merito su quell’accordo ma anche come un giudizio conclusivo sulla
presidenza Obama per quanto riguarda la politica estera. Mentre gli altri temi
principali, inclusa l’economia, sembrano finora porre su un piano di
sostanziale parità i due partiti americani (coinvolgendo dunque non solo le
opinioni sull’attuale inquilino della Casa Bianca, che non sarà più candidato,
ma l’intera impostazione del Partito democratico, soprattutto se la successione
a Obama sarà Hillary Clinton, che per quattro anni è stata Segretario di Stato e
dirigente delle relazioni internazionali). Per questo i repubblicani hanno
inaugurato la loro campagna elettorale concentrando le polemiche sul trattato
con l’Iran e, di conseguenza, sul comportamento degli Usa verso Israele,
recisamente contraria a ogni compromesso con il regime di Teheran. Il premier
dello Stato ebraico, Netanyahu, è venuto a Washington di persona davanti alle
Camere riunite per esporre il suo allarme e la maggioranza repubblicana al
Senato ha inviato un messaggio ai detentori del potere in Iran diffidandoli dal
ratificare l’accordo. Tra gli aspiranti alla candidatura per la
Casa Bianca, questo tema ha suscitato non
contrasti ma concorrenza, al punto che uno dei candidati ha descritto
addirittura Obama come colui che, attraverso quel patto, “accompagna gli ebrei
alle camere a gas”.
L’opinione degli
ebrei, dunque, era da considerarsi scontata. Fino a ieri, allorché è stato reso
noto l’esito di un sondaggio in cui gli ebrei americani sono stati invitati ad
esprimere la propria opinione. È uscito che essi sono, almeno fino ad oggi, più
favorevoli che contrari all’accordo così aspramente denunciato. Le domande erano
diverse, variamente articolate, ma le risposte concordano. La maggioranza degli
ebrei Usa è favorevole al trattato con l’Iran, in disaccordo con il governo di
Gerusalemme, in sostanziale accordo con le scelte di Obama e del suo Segretario
di Stato John Kerry. La domanda, che è stata posta dal Jewish Journal, chiedeva l’opinione “su un accordo in cui gli Stati
Uniti e altri Paesi alleggeriscono le sanzioni economiche contro l’Iran in
cambio della limitazione di quest’ultimo ai propri programmi nucleari”. Quarantuno
interpellati su cento hanno risposto “sì”, 38 su cento “no”, 21 su cento sono
indecisi. A domande più specifiche, il divario si è allargato. Fra coloro che
hanno espresso un’opinione (escludendo, cioè, gli indecisi), 63 su cento considerano
il trattato con un qualche favore, una maggioranza più larga rispetto al vaglio
delle risposte degli elettori americani nel loro complesso (54 per cento “sì”,
46 per cento “no”). Circa le conclusioni da trarne, il 54 per cento gli ebrei
americani raccomanda al Congresso di approvare il trattato, il 35 per cento
invita a respingerlo, il 12 per cento è indeciso. La sorpresa più forte,
soprattutto perché quasi tutte le organizzazioni degli ebrei d’America hanno
espresso e continuano ad esprimere opinioni radicalmente opposte e così la
quasi totalità dei deputati e senatori repubblicani più una buona parte dei
democratici in dissenso da Obama.
Le spiegazioni del
fenomeno sono principalmente due. La prima è che la maggioranza degli ebrei
americani è orientata da sempre verso il Partito democratico, mentre i leader politici,
economici e religiosi sono altrettanto saldamente simpatizzanti per i
repubblicani. Il dato economico mostra una netta contrapposizione secondo il
reddito, confermata dagli orientamenti di Trump e di altri leader del business,
a cominciare dai fratelli Koch, principali finanziatori della destra Usa e magna pars dell’Ajpac (Comitato di
azione politica ebreo-americano) considerata fra le più potenti lobby degli Usa.
Non è però solamente il reddito a fare di un ebreo americano un “conservatore”
o un “liberale”: è anche la collocazione religiosa. Le domande del sondaggio
sono state rivolte espressamente a “coloro che si considerano ebrei a
prescindere dalla religione”. Gli “agnostici” sono in maggioranza. Se le
domande fossero state poste solo ai praticanti, il risultato sarebbe stato
opposto.