Alberto Pasolini Zanelli
Febbrilmente
attivisti e commentatori, negli Usa e nel mondo si strappano di mani i
foglietti con i risultati del “caucus repubblicano” di Cleveland. Proclamano
vincitori e vinti, stilano classifiche (risulta in testa Donald Trump), ne
estraggono pronostici per le elezioni presidenziali. Che si svolgeranno fra un
anno e tre mesi e il cui vincitore entrerà alla Casa Bianca nel gennaio 2017.
Fuori d’America i più di fronte a questo calendario, scrollano il capo e
cambiano canale. Ci è sempre parsa una eccentricità con un grano di follia. Ci
torna in mente ogni volta che una campagna elettorale in Gran Bretagna dura
tassativamente tre settimane, dalle dimissioni del premier all’ingresso del suo
successore al numero 10 di Downing Street. Ridere del confronto e cercare
inoltre di capire non è vietato, Succede ogni quattro anni, ma questa volta è
speciale, a cominciare dall’ulteriore anticipo dei tempi che non è affatto
immotivato. E che il vero protagonista di questa orgia elettorale non è
candidato. Glielo proibisce una legge, che gli complica l’ultimo anno di un
potere sofferto come mai.
Per sei anni e
mezzo Obama ha dovuto fare il gioco delle parti. Considerato una “colomba”, non
è mai riuscito a dimostrare ai repubblicani che, dopotutto, sa essere un falco
anche lui. Ad aggravargli il compito è una serie di “coincidenze”, una
internazionale e una interna. La prima è l’emergere del “califfato”, del raggio
delle sue strategie e delle atrocità dei suoi metodi come pericolo numero uno,
cui non tutti sono disposti a prendere atto perche ciò imporrebbe un
riallineamento della alleanze e un ammorbidimento delle sanzioni contro la Siria e dunque anche contro
l’Iran le cui “milizie sciite” sono state finora le più efficaci nei
combattimenti terrestri contro le bande dell’Isis. Di ciò Obama ha tenuto
contro nella formulazione meno intransigente del trattato con Teheran, che non
fa concessioni sul suo “punto” centrale, il divieto a un Iran nucleare ma
contiene compromessi su altri argomenti. Su questo Obama ha tenuto duro, si è irrigidito
e all’accordo si è arrivati. Mancano però ancore le ratifiche parlamentari, che
dovrebbero seguire entro tre mesi. Nel Congresso di Washington i repubblicani dispongono
di maggioranze ben nutrite e probabilmente prevarranno, ma non finirà qui.
Perché la casa Bianca dispone del diritto di veto, che potrebbe essere
annullato solo da maggioranze qualificate molto più difficili da mettere
insieme. L’intero “percorso” richiederà parecchi mesi, che coincideranno con forse
metà dei mesi che il costume Usa richiede per una campagna elettorale.
Questa è la chiave
per capire i tempi e i modi della maratona che si è messa in moto l’altra notte
nel megasalone di uno stadio intitolato ai Cavalieri di Cleveland. E in cui non
poteva esserci spazio per granché di cavalleresco. Non nel confronto-scontro
fra 17 concorrenti (record di tutti i tempi) né nel linguaggio e negli
argomenti volti alle masse ed al nemico. Era una manifestazione dichiaratamente
di parte, una versione americana di una Festa dell’Unità dei tempi d’oro del
Pci. Il fair play è stato osservato da due o tre dei diciassette gladiatori, lo
scambio di idee soverchiato dallo scambio di epiteti. Lo “stile” oratorio di
Donald Trump, atteso e temuto per la sua dedicata impresentabilità ha trovato
ben presto degli imitatori. Lui è stato il bersaglio di un tiro a segno ma ne è
uscito intatto protagonista. Il “fuoco a volontà” era diretto al vero
bersaglio, Obama. La posta in palio non era la “primaria inaugurale” del prossimo
gennaio, né la Convenzione
repubblicana che sceglierà il candidato fra un anno né l’elezione vera e
propria del novembre 2016, né l’insediamento del nuovo presidente nel gennaio
2017. Sarà, fra una manciata di settimane, il voto del Congresso sulla ratifica
del trattato con l’Iran, un verdetto globale sull’operato di un presidente
avviato alla pensione. A Cleveland si è solo cominciato a “provare” la
requisitoria. Per questo la politica estera (chiamata Sicurezza Nazionale) è
stata l’argomento principe, relegando nei sotterranei dell’arena di Cleveland
tutti gli altri temi essenziali come l’economia, i destini della classe media
nell’era dei robot, i pericoli per la privacy, la riforma della giustizia, i
rigurgiti del conflitto razziale. Gli strateghi sono convinti che sia il più
promettente, perché affidato alla convinzione che nel cuore della Superpotenza
prevalgano ancora le passioni delle origini e quelle germogliate con la Storia. Due passioni
elementari e inaffondabili: il patriottismo e la paura. Una paura impregnata
dall’orgoglio che genera una nazione e spinge alle armi. È una strategia
fervida. Un piano audace e non privo di rischi, di anche rischioso. Anche
perché il bersaglio si sa difendere: in un’era di dominata dai repubblicani e
da istinti conservatori Barack Hussein Obama ha sempre vinto ogni volta che si
è presentato in persona. Più forte alle urne, forse, che alla Casa Bianca.
Adesso che non ha più il Posto da difendere pare abbia assorbito, o scoperto,
una forza che non gli si conosceva. O almeno una grinta. Al coro che da
Cleveland gli rinfaccia debolezza, risponde da Washington. Ai “falchi”
rinfaccia l’avventura sgraziata e costosa in Irak. A chi lo accusa di debolezza
verso l’Iran ricorda che i più estremi fra gli estremisti di Teheran, “quelli
che gridano morte all’America hanno fatto causa comune con i repubblicani
riuniti a Cleveland”.