Alberto Pasolini Zanelli
Il mondo ha sempre
più fretta, il passato ci appare sempre più lontano. La storia è sconsigliata
ai giovani, inuitile per gli anziani, lontano anche per coloro che avrebbero il
dovere di capirlo ma credono di non averne il tempo. L’Esperienza è soprattutto
un elenco delle cose da non fare, di errori da non ripetere. Tutto questo a
casa dei Grandi, figurarsi per l’Italia, sempre presente negli affari
internazionali ma soprattutto come elemento decorativo: è stata la voce autorevolmente
musicale di Federica Mogherini ad
annunciare la conclusione di un vertice fra Iran e Stati Uniti in cui lei era
seduta fra i Grandi però non rappresentava l’Italia ma l’Unione Europea. Teheran
è abbastanza distante da Roma, ci auguriamo che sia a distanza di sicurezza.
A differenza di
quello che potrebbe star diventando il focolaio di una nuova crisi
internazionale: la Libia,
che è evidentemente troppo vicina. Ci manda, o almeno ce ne arrivano, flotte di
profughi. Il Mare Nostrum è l’area di una iniziativa umanitaria molto dissimile
da quello che intendevano al tempo in un cui si cantava, anche nei caffè
concerto, di “Tripoli bel suol d’amore” verso cui “naviga una corazzata” per
farla diventare ”italiana al rombo del cannon”. Ora ci mandiamo, al massimo,
delle navi ospedale. Almeno fino a ieri,
perché oggi, di fronte al prolungarsi e all’aggravarsi di una crisi umanitaria
che è già diventata politica e militare, al pericolo che la Libia cada interamente nella
mani di un Califfo targato Isis, si levano sempre più autorevoli le voci che
invocano un intervento europeo integrato, a lunga scadenza se occorre, con una
“mano militare” e una politica. Nonché un “volto” giuridico e storico che molti
ritengono dovrebbe essere dell’Italia. In ricordo di “Tripoli bel suol d’amore”
o nonostante quel precedente.
Se questa “lettura”
prevalesse, se ci offrissero questo ruolo, il precedente corretto non sarebbe
però con la Libia,
ad onta della canzone e della geografia ma un altro, più remoto nel tempo e
soprattutto nello spazio. Non basterebbe risalire al 1911 ma al 1900 e
spingersi dalla vicina Libia alla Cina e da Tripoli a una città di cui oggi si
riparla come teatro di una catastrofe catalogabile come naturale: Tianjin, l’unico
pezzo di Cina ad essere stato in qualche modo sotto controllo italiano. E più a
lungo della Tripolitania e della Cirenaica: quarantatré anni invece che
trentuno.
Pochi ricordano
come ci arrivammo e quando. Accadde nel passaggio più buio della storia cinese,
seguito e contrasto di una lunga era di grande prestigio e prosperità, guidato
da un sistema di dispotismo illuminato, portato ad esempio in Europa da voci
come quella di Voltaire e che crollò sotto la spinta di una crisi interna enormemente
inasprita dal contemporaneo, traumatizzante contatto con l’Occidente, proprio
nel momento in cui quest’ultimo univa una
spinta espansionistica a una superiorità tecnologica schiacciante, che
le permise di dominare il pianeta,
appropriandosi di quasi tutte le risorse materiali e “ricambiando” in molti
casi con la “esportazione” di idee e istituzioni più progredite.
La Cina fu la macroscopica eccezione: le potenze europee vi esercitarono il
più nudo imperialismo commerciale e finanziario. Vi si presentarono con la Guerra dell’Oppio, nel
1839. Una potenza europea, la
Gran Bretagna, per la prima volta aggredì direttamente la Cina con una azione militare,
dando inizio ad un processo che doveva portarla alla disgregazione della società
e dello Stato. La Russia
le strappò, con i “trattati ineguali”, un milione e mezzo di chilometri
quadrati in Asia centrale e in Siberia; la Gran Bretagna, la Francia e, più tardi, il
Giappone vollero, e con la forza ottennero, il completo soggiogamento economico
Cina. Da quella umiliazione scaturirono ribellioni antidinastiche e antioccidentali.
I cinesi stavano forgiando un esempio per i terroristi settari del medio
Oriente di oggi. La rivolta dei Taiping esplose nel 1850 e durò fino al 1864;
quella dei Boxers è datata 1898 e scosse il mondo con l’assassinio
dell’ambasciatore tedesco.
In risposta i “controllori”
mobilitarono soldati, marinai e marines di cinque Paesi: Gran Bretagna, Stati
Uniti, Giappone, Francia, Russia e Germania. La campgna durò 55 giorni, una
battaglia decisiva si svolse a Tianjing. Il contingente italiano non vi
partecipò, ma poco dopo arrivarono i bersaglieri, in tempo per la conquista di
Pechino la parata della vittoria.Vittoria totale, di cui gli occidentali si
accaparrarono i frutti. Europei e giapponesi presero in mano le dogane, i
commerci, il controllo fiscale. poi le ferrovie, i porti, le miniere e perfino
la tassa sul sale. L’Italia ottenne un fetta rispettabile della torta: la
“concessione” di Tianjin, che allora si chiamava Tientsin. Aveva un milione di
abitanti, più una comunità straniera: soprattutto mercanti e missionari, ma
anche personaggi destinati a diventare famosi, da cominciare da Herbert Hoover,
futuro presidente degli Stati Uniti, a Galeazzo Ciano, “governatore” di Tianjin
prima di diventare ministro degli Esteri e genero di Mussolini. Pare sia stata
sua l’idea di costruire a Tjianjin uno sferisterio.
L’Europa aveva già cominciato
a suicidarsi nelle guerre mondiali. Al temine della prima, estromessa la Germania, gli inglesi in
Cina avevano in pugno il quaranta per cento del commercio estero cinese, della
navigazione e un quarto delle ferrovie. La Francia e i Paesi minori si spartivano i resti.
Il Giappone invase la Cina
nel 1937 con l’ambizione di prendersela tutta, trasformandola in una sorta di
gigantesca Corea. La seconda guerra mondiale rafforzò ulteriormente il ruolo giapponese
e indebolì quello britannico. Il Giappone divenna sola potenza dominante e
permise una qualche presenza solo al governo francese di Vichy e, dopo la resa
dell’Italia agli angloamericani, a quello che i piu’ chiamano “di Salo’” La
sola presenza militare fu quella nipponica, fino ai giorni di Hiroshima. Dei
padroni stranieri era rinasta solo l’America, ma la Cina invece se la prese Mao.
Compresa,
naturalmente Tianjin l’“italiana”. Una delle prime cose che i comunisti
cambiarono fu lo sferisterio, che da “posto per il gioco d’azzardo” diventò Casa
della Cultura. Ce lo raccontò il vicesindaco, durante il pranzo offerto poco
dopo a una delegazione e che fu
piuttosto caloroso.
Fino al momento in
cui uno degli invitati chiese che ci facessero visitare quello che chiamò “il
quartiere italiano”. La risposta fu negativa e acidula. Tornarono fuori Ciano e
la “bisca”. Comprensibilmente: Mao era morto da poco e non il lessico ufficiale
era stato riciclato. A Enzo Biagi, leader della nostra delegazione, scappò di
bocca un “Che coglione!” riferito al collega. Me lo disse nell’orecchio ma lo
sentì anche l’interprete che scambiò l’epiteto per un cognome e così lo interpellò in una
successiva occasione. Andò meglio a Romano Prodi, che visitò Tianjing molti
anni dopo. Era presidente del Consiglio e fu ricevuto dal sindaco e non da un
suo vice. E cortesemente lo invitarono a
visitare le tracce della nostra presenza. Nella città che fu ”italiana” prima e
più a lungo di Tripoli.