Alberto
Pasolini Zanelli
Per il trattato
più famoso dell’ultimo decennio, quello fra gli Stati Uniti e l’Iran, pare
giunta finalmente l’ora della verità. Per mesi, anzi per anni si sono contati
gli argomenti in favore o contro. Adesso si contano le teste. Dalla settimana
prossima si registreranno i voti, ma la decisione è presa, un dibattito di
estensione quasi infinita, drammatico e al tempo stesso monotono nella
ripetitività dei suoi argomenti si è chiusa, non ufficialmente, due giorni,
quando è stato raggiunto in seno al Congresso di Washington una “quota”
indispensabile. Non una maggioranza ma una minoranza, quella in grado, in
obbedienza ad alcuni regolamenti particolarmente curiosi delle Camere americane
non di chiudere il dibattito ma di bloccarlo. Un voto, insomma, per impedire un
voto. Una apparente bizzarria, uno dei tanti artifizi per mantenere
quell’equilibrio fra i poteri che contraddistingue il sistema politico Usa,
quella “bilancia” fra l’Esecutivo e il Legislativo. In casi come questo la Casa
Bianca fa i trattati, ma questi debbono essere ratificati dal Congresso. Se
quest’ultimo “boccia” il documento o lo modifica e sconvolge fino a renderlo
irriconoscibile agli occhi del presidente, questi può rifiutarsi di firmarlo
usando del suo diritto di veto. Però il Congresso può a sua volta sormontare
questo veto con un ulteriore documento. Senatori e deputati hanno dunque
l’ultima parola? No, perché il presidente può “sfidare” il veto rivolgendosi di
nuovo alla Camera e in questo caso gli avversari della legge devono raggiungere
in ambedue i rami una maggioranza dei due terzi.
Obiettivo che da
qualche ora è diventato praticamente irraggiungibile, perché Obama ha ottenuto
l’assicurazione che ci saranno almeno trentaquattro senatori a sostenerlo.
Trentaquattro su cento è il numero magico per la vittoria dei “no”, dal momento
che la maggioranza richiesta è di due terzi e quindi di almeno 67 senatori su
cento. Dal momento che 34 hanno compiuto una scelta opposta, la
supermaggioranza non esiste più e Obama dovrebbe avere avuto via libera. Tutto
questo non al termine di un dibattito ma con qualche giorno di anticipo sul suo
inizio, anzi sulla sua prima fase. La settimana prossima è destinata a questo,
una prima tappa in cui è richiesta una maggioranza semplice e dove dunque pare
assicurata la vittoria dei repubblicani, la stessa che le intenzioni di voto
invece rendono impossibile nella tappa ultima e decisiva.
Questo per quanto
riguarda il regolamento. In realtà il dibattito che sta per aprirsi in
Congresso è già in corso da mesi, anzi da anni. Intanto perché il trattato in
questione costituisce un “perfezionamento” e in sostanza un allargamento di un
accordo precedente e provvisorio. Esso nasce, come tutto il mondo ha appreso a
sazietà, dall’intenzione attribuita all’Iran di dotarsi dell’arma nucleare,
dell’allarme che esso ha provocato nei Paesi vicini (soprattutto e più
fragorosamente in Israele, ma in realtà anche nei Paesi arabi vicini all’Iran)
e, di conseguenza, all’America, legata allo Stato ebraico da un impegno di
garanzia che non ha mai avuto bisogno di essere messo su una carta. Un’alleanza
mai in discussione, ma che ha provocato incomprensioni e dissidi, più clamorosi
da quando Obama, arrivato alla Casa Bianca, si è impegnato a fondo per
trasformare quell’accordo provvisorio con Teheran in un trattato vero e proprio
destinato a durare e a risolvere il problema. L’Iran si è impegnato a non
costruire la Bomba, l’America ha “ricambiato” promettendo di rinunciare agli
embarghi e alle pressioni economiche molto forti che hanno finora reso
impossibile una normalizzazione nei rapporti fra i due Paesi. Di qui le
opposizioni interne ed estere, derivate da considerazioni strategiche e
opposizioni sui fatti e sui sospetti, che si rifanno, in sostanza, al contrasto
fra due “visioni” nel futuro mondiale: i repubblicani a Washington, non solo
per solidarietà con Israele ma per una propria visione del mondo dopo la fine
della Guerra Fredda, intendono continuare a sfruttare il “momento” di quasi
onnipotenza americana. I democratici, in particolare Obama, ritengono che il
mondo sia entrato in una fase nuova che deve essere articolata su nuovi
equilibri e sul riconoscimento delle priorità di altre aree del mondo, in
particolare l’Estremo Oriente e il Pacifico. Argomenti dibattuti anche con
veemenza. Basta ricordare la lettera di 47 senatori repubblicani su 54
indirizzata al “leader supremo” della Repubblica Islamica dell’Iran in cui lo
si incitava a non concludere il trattato con l’America e a “ignorare” il
documento che gli fosse presentato da Obama. Una vera e propria “sedizione”
senza precedenti. Ma che oggi sembra destinata a fallire.