Alberto
Pasolini Zanelli
Detto così, sembra
la ripetizione di una abitudine della Superpotenza americana: la promessa di un
intervento militare nel caso che il potere e le istituzioni di un altro Paese
stiano crollando e minacciando i vicini. Invece non c’è niente di “solito”,
perché l’offerta non è rivolta alle autorità di un Paese amico, ma alla nazione
che in questo momento rappresenta il più grave pericolo per tutto il pianeta,
compresi e anzi in prima fila gli Stati Uniti. Non è un’offerta né un ultimatum
a Kim Jong un, il dittatore che sta giocando con l’arma nucleare, minacciando
un attacco a qualche sua frontiera e nominando spesso e in maniera truce prima
di tutti Washington. L’America ha risposto più d’una volta a queste
eventualità, facendo balenare una rappresaglia di “fuoco e fiamme” e cioè la
distruzione della Corea del Nord.
Adesso egli, oltre
a minacciare, promette, allo stesso indirizzo ma a un interlocutore diverso e
ipotetico. Non riguarda una sempre possibile e sempre temuta aggressione di Kim,
bensì le conseguenze di un abbattimento del suo regime, che metterebbe delle
testate atomiche e dei megamissili in mani ignote come conseguenza di uno
sfacelo di tutte le strutture nordcoreane, che a sua volta sarebbe conseguenza
di un abbattimento del regime, probabilmente accompagnato dall’uccisione di
Kim. Da vivo egli fa paura, ma da morto un vero e proprio terrore planetario. I
consiglieri di Trump sono riusciti a convincerlo di un pericolo e concreto fino
a pochi giorni fa non menzionato. Trump contempla adesso l’ipotesi di “qualcuno
di peggio” a Pyongyang, di un caos di violenza tale da rovesciare il dittatore
ed ereditarne gli ordigni dell’angoscia, per regalarli addirittura al caos. Si
immaginano le sfere nucleari a disposizione del primo che passa, possibilmente
peggiore del dittatore di oggi perché sconosciuto e interamente imprevedibile.
Sarebbe il terrore in primo luogo per la Corea del Sud, autentica vicina di
casa e poi per il Giappone e per le due Superpotenze: la Cina e l’America. In
questo caso avverte Washington non si starebbe con le mani in mano ma si
ricorrerebbe a un’azione militare senza regole e confini, senza neanche
l’efficacia di un ultimatum che ha senso solo se ha un preciso indirizzo.
Un discorso
inatteso ma chiaro, non lasciato a un portavoce qualsiasi ma spedito
personalmente dal “ministro degli Esteri” Usa, il Segretario di Stato Rex
Tillerson e immediatamente confermato da Kim in persona, che ha confermato
l’esistenza di “piani di contingenza” e rivelato che contatti sono già in corso
con la Cina, idealmente per una strategia comune ma in un contesto diverso estensibile
a una vera e propria concorrenza. Washington sta trattando con Pechino,
guardando nel fondo degli occhi Pyongyang, cercando di tranquillizzare Tokio.
Una sorpresa, dunque, ma tutt’altro che priva di una logica militare e
politica, di dimensioni senza precedenti, che finora ha raccolto cauti consensi
in varia forma in tutto il mondo. Dovrebbe unirvisi, secondo logica, lo stesso
governo nordcoreano. Cosa che non accadrà, ma che potrebbe servire ad
ammorbidire le furie di Kim, che potrà non ammetterlo, anche se avesse già
iniziato a riflettervi. Quasi altrettanto immediato come il monito al dittatore
in carica che c’è chi si preoccupa della sua morte ancora di più che di lui
vivo. Kim non potrà far finta, anche se rimane per ora improbabile la
conseguenza di un’immediata apertura di dialogo. Se lui non ascolterà potranno
ascoltarlo i suoi nemici occulti e invidiosi, che potrebbero non avere scrupoli
di fronte a un personaggio che per consolidare il proprio potere ha sterminato
la propria famiglia.
Non si è dunque
aperto finora un dialogo, ma se ne mettono in tavola le materie prime. È
improbabile che Trump, non solo a causa della sua inesperienza assorba il piano
strategico che è alla base della minaccia e offerta della Casa Bianca. Quello
che però fra l’altro sembra delinearsi è un’indiretta solidarietà da parte della
seconda superpotenza nucleare del pianeta: la Russia. Che formalmente non è
parte della crisi originata dalla Corea del Nord, ma ha un suo peso planetario,
soprattutto per quanto riguarda i rapporti con l’America. È difficile che sia una
totale coincidenza il riavvicinamento proclamato negli ultimi giorni almeno due
volte da Vladimir Putin. Un elogio e un ringraziamento. Una telefonata dal
Cremlino per riconoscere ed esaltare i successi degli Stati Uniti – e dunque di
Trump – nel campo dell’economia mondiale, compresa la citazione della brillante
crescita a Wall Street, definita da Putin una straordinaria performance
economica. E un paio di giorni dopo un gesto ancora più impegnativo e senza
precedenti: il ringraziamento, sempre per telefono dal Cremlino alla Casa
Bianca, di Putin a Trump per il contributo dato dallo spionaggio americano a
scongiurare alla Russia una sanguinaria congiura terroristica che avrebbe
dovuto colpire rovinosamente un monumento religioso e cristiano come la
cattedrale di Kazan sulla Prospettiva Evsky a Sanpietroburgo. Un monumento non
antico ma costruito in anni difficili e importanti per la Russia, cioè
all’inizio dell’Ottocento. Per la seconda volta in tre giorni, Vladimir Putin,
nel bel mezzo della polemica politica a Washington per le presunte
“interferenze” delle “spie di Putin” nelle elezioni presidenziali americane, ha
manifestato gratitudine e solidarietà. Due sentimenti che non capitava più di
ascoltare dopo il progressivo inasprimento dei rapporti fra le due Superpotenze
dai giorni in cui le ostilità avevano fatto temere il tramonto del “miracolo” costruito
da Mikhail Gorbaciov e da Ronald Reagan.