Alberto Pasolini Zanelli
Quello di Bruxelles è stato l’incontro più freddo fra gli
Stati Uniti e i suoi alleati europei. Non importa se non a livelli governativi:
ugualmente significativo anche se condotti da dei ministri degli Esteri e non
proprio da capi dello Stato o da primi ministri. Comunque il più gelido degli
ultimi settant’anni, cioè da quando George Marshall sigillò, poco dopo la fine
della Seconda guerra mondiale, la nascita di una comunità atlantica, la più durevole
alleanza della Storia. A crearla fu un presidente Usa di nome Harry Truman. Oggi
alla Casa Bianca abita Donald Trump, che potrebbe rimanere agli annali come
l’autore del divorzio atlantico.
Per ora nel linguaggio. L’occasione è stata un incontro fra i
ministri degli Esteri della Nato e della Comunità europea a Bruxelles. Fra i
protagonisti l’attuale segretario di Stato americano Rex Tillerson e i suoi
colleghi dei Paesi europei più importanti e inquieti. Lo ha ricordato il
ministro degli Esteri tedesco Gabriel, che ha sottolineato e riassunto le
“innovazioni” di Trump, che consistono nel vedere il pianeta come un’arena per
competizione e anche come un avversario economico.
Ma non soltanto: gli hanno spiegato i protagonisti del “vertice”,
primo fra tutti il presidente francese Macron in un colloquio telefonico con
Trump, in risposta all’annuncio del presidente Usa di una decisione che
certamente esacerberà una crisi regionale ormai antica come quella in
Palestina, con l’annuncio che l’America è ora disposta a trasferire la sede
della sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. E che probabilmente si riverberà
in tutto il Medio Oriente, a cominciare da Paesi come la Siria che ha appena –
o forse – finito di soffrire sette anni di guerra nominalmente civile e del
Paese che è tuttora al centro di tensioni che potrebbero riguardare l’Iran,
nell’interesse esclusivo, oltre che di Israele, anche e soprattutto di una o
due potenze arabe, ma certamente non degli europei. “Una cattiva idea” -, ha
ammonito il presidente francese, quasi quanto la decisione, che ha aperto il
primo quadriennio di Trump, di cancellare l’impegno preso dagli Stati Uniti nel
trattato di Parigi di controllare e limitare i futuri energetici.
L’intervento di Macron, il politicamente più giovane fra
tutti i leader europei, era probabilmente il più atteso, ma alla fine le novità
importanti e le domande più puntute, sono venute dal ministro degli Esteri di
Berlino, anche perché egli in questo momento rappresenta e sostituisce un
governo che non c’è e sopratutto Angela Merkel, protagonista dopo anni di
potere di settimane difficili e imbarazzanti di impotenza e di scelte molto
difficili, soprattutto perché conseguenza di una sconfitta elettorale dovuta in
parte alla sua decisione di aprire le porte agli immigrati dal Medio Oriente e
dal Africa, imbarcandone un milione in un anno. Paese di tradizionale stabilità
parlamentare e governativa, che hanno frustrato le sue iniziative di formare
nuove maggioranze e probabilmente la obbligheranno a tenersi come partner i
socialdemocratici e come ministro degli Esteri Gabriel che, anche se finisse
con l’essere sacrificato alla ristrutturazione governativa, avrà chiarito le intenzioni della Germania in
Europa e, molto probabilmente, con l’Europa nel mondo. Ruolo rischioso e arduo,
che implica una contrapposizione con le “novità” di Trump (che includono i
rapporti con Iran e quelli con la Russia con un presidente Usa che sembra
pronto a resuscitare brani e umori da Guerra Fredda che nella campagna
elettorale che egli aveva attribuito a Hillary Clinton). Una “novità” non tanto
nuova, come del resto le ultime “svolte” di Donald Trump.