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Un anno di America sempre piu’ divisa

Alberto Pasolini Zanelli
L’albero di Natale è già tanto carico di doni (ma sarebbe meglio dire di conti) per gli americani che per tentare di estrarne un bilancio bisognerebbe adornarne almeno due: quella dei portafogli e quella dei cuori. Nessun precedente impone che i bilanci, soprattutto al temine del primo anno di una nuova leadership nella Casa Bianca, siano sintetici e coerenti. Il contrasto c’è sempre stato sulla gestione di Donald Trump, fin dal giorno stesso in cui essa è nata: con una maggioranza di “voti elettorali” (quelli che contano) e una minoranza delle scelte personali degli elettori. Succede qualche volta in conseguenza del sistema elettorali, ma non sovente e semmai quando i candidati alla presidenza presentano programmi abbastanza simili che dunque lasciano spazi e occasioni alle indecisioni.
Questa volta i distacchi fra i concorrenti sono stati modesti e dunque apparentemente cauti, ma su programmi e dunque anche personalità duramente contrapposte. I tre milioni in più per Hillary Clinton non si sono tradotti in compromessi post elettorali. Si sono, anzi, fatti più aspri e più chiaramente indicando incompatibilità. L’unica cosa “normale” è la sparizione dello sconfitto, inevitabile e forse anche sana perché consente un terreno più sgombro della nuova serie di dibattiti, con una “consolazione” per i soccombenti: quella di ripartire da zero.
Quando, come? Durante quest’anno inaugurale della presidenza Trump. Le polemiche sono state così vive che definirle serrate sarebbe un eufemismo e ciò ha in un certo senso aiutato gli sconfitti, esonerandoli dalla necessità di difendere a priori le proprie scelte che l’America non ha scelto. Né sotto l’albero di Natale 2017, ci sono molti regalini di compromesso, in sintonia con una musica pacata e adatta all’occasione.
Niente di tutto questo: Trump si è trovato di fronte fin dal primo giorno una platea non di concorrenti ma di nemici e non ha fatto altro che dedicarsi sistematicamente ad inasprire i loro animi. Di solito i candidati vincenti entrano in funzione ammorbidendo il proprio linguaggio e ridefinendo la sostanza dei propri progetti in modo da renderli in qualche misura più morbidi e dunque in qualche misura accettabili. Quest’anno il presidente ha ribadito in toni più aspri le proprie scelte politiche, l’opposizione ha condito il proprio piatto di “no” con le salse più asprigne e scottanti. Su tutti i campi, dalla politica estera alle indicazioni economiche, alla definizione del Bene e del Male nel gergo finanziario. Trump ha continuato a parlare della necessità di cancellare le riforme di Obama, a cominciare da quella sanitaria, da parte democratica si è preferito aprire il fuoco sulla persona piuttosto che sui suoi progetti. Soprattutto negli ultimi mesi è spuntata addirittura e frequente la parola impeachment, un “no” assoluto meno nutrito dal rifiuto dei programmi che concentrato sul rifiuto della persona. I nomi e i volti più frequenti sono stati quelli di accusati e di accusatori, i dibattiti sulle persone che sulle idee. Ne è derivata, inevitabilmente, una spaccatura con pochissime aree di armistizio. Il tema più frequente è stato il più aspro ma anche il meno definibile: i rapporti con la Russia. Ma non quelli soliti politico-militari, bensì le dichiarate basi morali. Tutti hanno idee chiare e propositi rabbiosi su questo tema, quasi nessuno è riuscito a spiegare che cosa sia realmente avvenuto durante la campagna elettorale 2016. Si è diffusa un’atmosfera che ricorda per certi aspetti quella della Guerra Fredda, senza che nessuno sia riuscito a spiegare in modo coerente e credibile quando, come e in che modo il ridipinto “Impero del Male”abbia assaltato l’America. Nessuno di coloro che hanno condotto le polemiche ha avuto il coraggio di spiegare oppure di chiedere che cosa in realtà sia successo.
L’argomento alternativo, quello riguardante il passato e il futuro dell’economia americana, è stato naturalmente più nutrito di cifre del primo argomento. Ma anche qui si è parlato, e lottato, più delle posizioni e delle scelte in Congresso che non dei fini e delle possibili conseguenze, positive o negative, delle riforme. Con il risultato che alla fine le innovazioni più discusse sono “passate”, ma il contrasto delle opinioni è rimasto illeso. I conti si fanno in un modo e nell’altro, senza realmente collegarli. Chi si presenti sotto l’albero di Natale 2017 se ne trova davanti due. Il primo è quello delle nude cifre e Donald Trump, non serve far finta che ciò non sia accaduto, ha vinto in due modi: nell’aritmetica parlamentare e nelle conseguenze, almeno iniziali, di certi suoi programmi. La riforma fiscale, discutibile e molto discussa, è passata con la più ristretta maggioranza pensabile; ma sullo sfondo delle cifre dei risultati del primo anno di presidenza Trump, contrassegnati da una crescita assai rilevante dell’economia american, molto vicini ai record in materia. Questo contando i dollari, o meglio i miliardi di dollari. Se si guarda invece all’altro albero, quello dell’approvazione politica, siamo di nuovo a un record, assoluto e negativo: il consenso a questo presidente è minimo, mentre è massimo il dissenso, anzi il rifiuto. Il 47 per cento dei voti il giorno delle elezioni si è ridotto a qualcosa di più di un misero 30 per cento. Di altrettanto o pressappoco si è gonfiato dunque il consenso del popolo americano all’autore. Quasi un plebiscito: ma di “no” non di “sì” alternativi.
Hillary Clinton, scelta un anno fa da una ristretta maggioranza di americani, non richiama che pochissimo della ostilità al suo avversario. Il suo albero di Natale è vuoto. Non c’è un angolo per montarne uno, neanche di rimpianti.