Alberto Pasolini Zanelli
Non c’è soltanto la Corea negli
incubi americani di questo momento. E non perché l’incubo nucleare con il
faccione di Kim Jong-un si sia attenuato, ma perché tante altre crisi o almeno
grane si sono moltiplicate negli ultimi giorni stabilendo molto probabilmente
un record nazionale e, di conseguenza, mondiale. Annebbiato da uno scoppio di
contraddizioni che rendono difficile ancor più che doveroso il compito della
classe politica e, in questi giorni, anche militare degli Stati Uniti. E non è
tutta colpa di Donald Trump, anche se le sue gaffe, le sue dichiarazioni
roboanti, le sue contraddizioni contribuiscono a che la sua immagine stia diventando
il simbolo della crisi, forse la più grave del momento ormai lungo giustamente
contrassegnato dalla fine della Guerra Fredda.
In alcune cose, poi, l’uomo della
Casa Bianca ha responsabilità ridotte. Per esempio nell’assalto totale della
meteorologia, che ha aperto un “secondo fronte” in Florida e nei Caraibi. Una
coppia di drammi che ricadrà anche sui bilanci, federale e degli Stati proprio
in un momento in cui la parola d’ordine dovrebbe essere il risparmio. Una crisi
politico-militare obbliga il governo a diventare più generoso con il Pentagono,
ma ci sono alcuni megaprogrammi “civili” che hanno scadenze quasi altrettanto
urgenti e non soltanto per l’ovvio motivo che non solo le guerre costano ma
anche le misure prese o proposte per evitare le guerre senza rinunciare alle
vittorie, che sono nella tradizione americana.
Ecco dunque la ridda di minacce e
promesse, alternative fra misure nucleari ed embarghi commerciali (l’ultima
idea proposta è quella di interdire del tutto il traffico commerciale e
marittimo di un Paese come la Corea del Nord da cui quel poco che arriva non
può che arrivare via mare. La terra è piccola a confronto del Pacifico, ma è
irta di armamenti, a partire da un sistema di difesa della Corea del Sud basato
su ordigni atomici per il momento scarichi e vuoti e strategie terrestri che
dovrebbero funzionare solo in caso di attacco nemico, cioè di proclamazione di
una guerra. È quello di cui una voce autorevole ha già parlato a Washington,
accusando il governo di Pyongyang di “pregare” perché una guerra ci sia; questo
pochi giorni dopo il monito apocalittico di Trump che ha minacciato la Corea
del Nord di “fuoco e furia”. Una risposta non da tutti apprezzata, ma che è
proporzionata alle minacce e al vocabolario della controparte.
Poi c’è la pagina diplomatica, la
richiesta sempre più urgente di una mediazione da parte della Cina, i cui
sentimenti nei confronti della Corea del Nord non sono molti più dolci di
quelli di Washington, ma che deve difendere una tradizione ricca di paraventi
ideologici. Poi l’America deve tenere presente le angosce del Giappone, da mesi
il bersaglio, per ora a salve, degli esperimenti nordcoreani e di un bollettino
quasi quotidiano che annuncia ogni “trasvolata” dei missili che potrebbero
trasportare i carichi nucleari.
Quanto alla Corea del Sud le sue
angosce sono ancora più immediate, contenute soprattutto nella parola che
riassume il ricordo di una guerra “civile” che è costata vittime umane a
centinaia di migliaia. Anche per questo l’America ha dei doveri che costano e
pochi aiuti dall’estero, fra una Cina ambigua e una Russia che si finge
distratta.
Difficile prendere decisioni. È
comprensibile che un uomo di non grande esperienza diplomatica come Trump
incappi spesso in gaffe e contraddizioni. Anche perché ha un’opinione pubblica
ostile, cambia ogni settimana almeno un collaboratore importante e vede bloccati
i suoi programmi. Voleva annullare la legge di Obama che da anni protegge i
bambini degli immigranti lasciandoli entrare in America senza i permessi
richiesti agli adulti. Lo dovevano difendere i repubblicani che l’hanno invece
abbandonato, al punto che il presidente è stato costretto ad invitare alla Casa
Bianca i due massimi esponenti del Partito democratico. Era ancora arrabbiato
perché la proposta di trasformazione delle riforme fiscali di Obama è venuta
meno perché alcuni senatori repubblicani hanno votato con l’opposizione. Per
guadagnare un po’ di respiro, Washington cerca di ignorare provvisoriamente aree
fino a ieri cruciali come il Medio Oriente. Al punto da potersi permettere una
gaffe: un volantino rivolto ai jihadisti su cui la loro bandiera nera è
accostata al disegno di un cane, animale considerato immondo dai musulmani.