La popolarità del Male,
rispetto alla sua banalità, è uno stadio più avanzato in direzione della
sua metabolizzazione e, direbbe un pessimista, del suo trionfo. Il
Male, nell'evo della comunicazione globale e capillare, dei network e
dei social, è una dimestichezza da ostentare, è un linguaggio da
padroneggiare. Nessuno arretri, nessuno si faccia trovare impreparato o
muto, atterrito o vinto, di fronte al Male. Gli faranno un selfie, molto
presto, al Male, posando accanto a lui come accanto a Messi o a Lady
Gaga.
La sfortunata madre della povera ragazza Nicolina ha concesso una lunga e
quasi ciarliera intervista a una trasmissione Mediaset del mattino
mentre la figlia agonizzava in ospedale, colpita in faccia (in faccia!),
mentre andava a scuola, dalle pistolettate di un ex fidanzato di mamma,
uno dei tanti ributtanti maschi omicidi (e poi suicidi) che non
tollerando di essere lasciati da una femmina soffocano l'onta nel
sangue.
Non si pretendono, dalla gente semplice, i toni della tragedia greca. Ma
la gente semplice, fino a non tanti anni fa, sapeva ammutolire.
Chiamatelo pudore, dignità, vergogna, chiamatelo come preferite, ma
quando la voce del dolore rimaneva chiusa nelle stanze dei disperati, il
Male non mieteva un successo così corale, e non trovava inserzionisti
pubblicitari, già al mattino presto, disposti a cavalcarlo. Il crocchio
dei curiosi, e tanto più il lutto delle vittime, rimanevano confinati in
una dimensione di bisbiglio o di pianto o di scoramento inerte (quando
si diceva: "Non ha più neanche le lacrime per piangere"). Qui ora, nel
caso di questo ultimo delitto atroce (uccide per vendetta la figlia
adolescente della donna che non riesce a rintracciare per ucciderla...),
ma anche di molti altri, c'è intanto da rintracciare, alle spalle
dell'evento, l'immancabile "dietro le quinte" delle paginette Facebook
dei protagonisti, che a leggerle dopo quello che è successo, signora
mia, già lasciano capire come sarebbe andata a finire. E spesso,
effettivamente, traboccano odio, ignoranza e vanità (che non sono colpe,
no, ma neanche bandierine da sventolare online), come per preparare il
terreno all'arrivo, a cose fatte e a cadavere caldo, delle telecamere e
dei microfoni, fratelli maggiori che hanno fatto carriera. Anche loro,
in fin dei conti, "social media", per giunta di calibro infinitamente
maggiore, e padroneggiati da veri professonisti nella zoomata sulla
piaga, della catalogazione del Male a seconda della sua telegenia. Non
si dubita che quella povera madre pugliese fosse sotto choc. Chi non lo
sarebbe. Resta da capire come mai le persone sotto choc (non solo lei:
parlo dell'abbondante cast di vittime e protagonisti di delitti
efferati, che alle interviste neanche si sognano di sottrarsi) si
consegnino con tanta naturalezza ai palinsesti. Eravamo rimasti alle
persone sotto choc che crollano o fuggono o smaniano, quando era ancora
impensabile che diventassero docili ingredienti delle infernali cucine
della televisione del dolore: che sarebbe ora di chiamare in modo
diverso, perché di doloroso ha veramente poco, la televisione del
dolore. La popolarità del male è uno stato d'animo a suo modo spigliato,
di mondo, si parla della morte degli ammazzati, e dei delitti degli
assassini, con un tono appena compunto, però dinamico e informato, senza
trasalimenti, senza esitazioni o silenzi, senza arretrare di fronte ad
alcunché, ci sono scalette da rispettare così come, su Facebook, ci sono
controinsulti e controminacce da digitare in fretta, a raffica, colpo
su colpo. Ha ritmo, ha passo spedito, la popolarità del male,
Dostoevskij ci metteva duecento pagine per dire le stesse cose che si
possono dire in trenta secondi di televisione, o in dieci parole sullo
smartphone.