Alberto
Pasolini Zanelli
I portoni dell’Onu
sono aperti e resteranno per qualche altro giorno per ospitare un processo a
Kim Jong-Un. È semplicemente un’altra sede per la ripetizione delle accuse,
delle difese e delle sfumature di posizione dei futuri giudici. Che sono tanti:
193 Paesi membri dell’Onu, che di solito non decidono molto e si limitano a
fare raccomandazioni. Il potere risiede, lo sanno tutti, nel Consiglio di
Sicurezza e soprattutto nei suoi membri permanenti, tutti possessori di armi
nucleari. E dunque difensori di un monopolio che è però nell’interesse
dell’intera umanità.
Questa volta è
arrivato Donald Trump in persona, spinto forse anche per una coincidenza di
età: lui e le Nazioni Unite sono quasi gemelli. Compiranno più o meno assieme
fra breve settant’anni. Protagonista oltre che delle forze di cui dispone,
anche perché debuttante nelle riunioni di questo genere . Parlerà fra un paio
di giorni, ha dedicato i primi due a contatti bilaterali che potrebbero
fornirgli qualche elemento in più per emettere quella che non sarà proprio una
sentenza ma qualcosa di molto simile a un’arringa.
Non ci sono
difensori rilevanti. Non c’è neppure l’imputato, il dittatore della Corea del
Nord e non si sono finora presentati i due più rilevanti del collegio dei
giudici: la Cina e la Russia, considerate le sole due potenze che possano forse
condurre un lavoro di mediazione, sempre meno probabile in conseguenza non solo
della prosecuzione degli esperimenti nordcoreani, che ormai sono diventati
occasioni per intimidire i Paesi vicini, che crescono di numero ogni volta che
il raggio di vulnerabilità si estende, a ritmo ormai più settimanale che
mensile. Per l’America hanno parlato finora tre esponenti della politica
estera. Più autorevole data la funzione e l’occasione, Nikki Haley,
ambasciatore americano all’Onu, che ha parlato come Trump al suo debutto: se
Kim continuerà così, dovrà affrontare “fuoco e furia” da Washington. Haley ha
ribadito il concetto in termini ancora più forti: “Se la Corea del Nord
continuerà in questo suo comportamento irresponsabile, se gli Stati Uniti
saranno costretti a difendersi o a difendere i propri alleati, la Corea del
Nord sarà distrutta”. Kim, lo sappiamo, ha ricambiato le minacce e risposto con
nuovi esperimenti nucleari.
Haley ha parlato
anche delle sanzioni, nuovo e ormai ultimo round che comprenderebbe il taglio
del 30 per cento di tutte le importazioni dalla Corea del Nord, a cominciare
dal petrolio, che viene soprattutto dalla Cina, che però in questo momento
tace. Completamente allineati agli Stati Uniti, anzi più espliciti, sono la
Corea del Sud e il Giappone, i cui leader si sono incontrati poche ore fa a New
York ma hanno già parlato in proprio, insistendo il primo sulle sanzioni e il
secondo sulla possibile necessità di rappresaglie militari. Differenze
comprensibile, dal momento che la Corea del Sud già dispone di un “ombrello”
americano sul posto, mentre il Giappone no.
L’atteso discorso
di Trump servirà anche, probabilmente, a chiarire, oltre alle sue inclinazioni
personali, quale sia l’orientamento dell’opinione pubblica e dell’area di
potere a Washington, che potrebbe non coincidere interamente con le intenzioni
e soprattutto i toni dell’uomo della Casa Bianca. Completamente in linea con il
presidente si sono espressi nelle ultime ore due suoi collaboratori importanti
come McMaster e Tillerson, che hanno rilevato come “la Corea del Nord non
appare interessata a colloqui per la denuclearizzazione”. Riserve vengono
semmai dal Congresso e in particolare da una voce influente in campo
democratico. Dianne Feinstein, senatore democratico della California e membro
dell’Intelligence Commitee, ha così formulato la propria posizione più
prudente: “Non credo che la Corea del Nord rinuncerà al suo programma di riarmo
se in cambio non le verrà offerto qualcosa. Per esempio se noi potessimo
produrre una verifica credibile di un congelamento dei programmi nucleari e
dell’arsenale missilistico e potessimo convincere la Cina ad appoggiare questo
tipo di sanzioni, è pensabile che si possa proporre al regime di Pyongyang una
specie di baratto: niente guerra e rinuncia da parte nostra alla tentazione e
al progetto di un “cambio di regime” nella Corea del Nord”. Una formula
somigliante, con le debite differenze e una ben maggiore urgenza, a quella
escogitata per quanto riguarda l’Iran.