Alberto
Pasolini Zanelli
L’atomica
nordcoreana continua ad essere l’angoscia numero uno della classe politica
americana e di altri Paesi. Ha mantenuto il suo angoscioso primato perfino nei
giorni in cui gli Stati Uniti d’America sono stati aggrediti da un fenomeno
naturale molto più potente, per ora, degli ordigni che il dittatore di
Pyongyang si vanta di stare preparando e che il presidente di Washington ha
deciso che l’unico modo per fermarlo può essere la minaccia di rappresaglie
militari a breve scadenza. Questi diversi linguaggi, allarmati o allarmanti
tutti, sono risuonati nelle ultime ore nelle aule delle Nazioni Unite e, a voce
più bassa ma con quasi uguale impegno, nelle sedi di governo di un numero
crescente di Paesi, nessuno dei quali neutrale ma gran parte impegnatissimi
nella ricerca di una via di mezzo, vale a dire di una strategia diplomatica e
finanziaria che riesca a convincere Kim Jong-un a diminuire la sua pressione e
le sue minacce in modo da rendere possibile anche a Trump di fare qualche
passetto indietro almeno a medio termine.
L’ultimo confronto
pubblico fra le due posizioni si è svolto nella sede appropriata, cioè all’Onu,
in conseguenza di una spinta americana per rincrudire in tutti i terreni
possibili le già durissime sanzioni contro la Corea del Nord. Il governo
americano aveva presentato un progetto molto largo e assieme molto stretto:
vale a dire con il massimo delle partecipazioni internazionali e con un
linguaggio di urgenza ultimativa. Alla fine si è arrivati a un compromesso, più
vicino alle posizioni di Washington per quanto riguarda appunto l’ampiezza
delle pressioni, ma non completamente tale a causa delle preferenze di molti
altri Paesi per richieste dure ma non ultimative in modo da guadagnare almeno
tempo, visto che nessuno si illude che i nordcoreani possano cambiare rotta a
breve scadenza.
Mentre all’Onu si
votava, sono però continuate o spuntate strategie alternative, del genere che
se fossero state sottoposte a voto al Palazzo di vetro si sarebbero quasi
certamente scontrate con i no di queste due grandi potenze più le obiezioni e
le riserve di altri Paesi dell’area occidentale che hanno sostanzialmente
proposto un sistema alternativo di sanzioni alla Corea del Nord. Riportando sul
tavolo dei negoziati l’altra “bestia nera” dell’America: l’Iran. A differenza
di Pyongyang, Teheran ha firmato un accordo internazionale (uno degli ultimi
raggiunti dalla presidenza Obama) che non prevede, almeno nell’immediato,
rappresaglie militari del genere di “fuoco e furia” evocate da Trump. In
sostanza l’Iran viene portato ad esempio di clausole costose e in parte anche
ambigue che però ostacolano in primo luogo un pericolo immediato di guerra.
Malvolentieri per molti americani: Obama e il suo Segretario di Stato Kerry
hanno faticato a lungo per spuntarla contro un’opposizione prevalentemente
democratica.
Adesso questo
partito, che ha perduto oltre alla Casa Bianca anche il Senato e la Camera, si
è spostato verso i “falchi” repubblicani, se non altro per mettere Trump sotto
pressione affinché egli cancelli quel patto con Teheran, usando anche del
parallelo con Pyongyang. Che però non convince né probabilmente la Casa Bianca,
né comunque gli alleati degli Usa, in particolare europei. Che si sono
svegliati proprio nelle stesse ore in cui alle Nazioni Unite si discuteva
l’inasprimento delle sanzioni. La prima nazione europea a farsi viva è stata,
causando una certa sorpresa, la Germania. La signora Merkel, in uno dei suoi
ultimi comizi preelettorali (in Germania si voterà fra meno di due settimane) ha
proposto un nuovo round di negoziati con la Corea del Nord con una “platea”
allargata a dei membri europei, prima fra tutti Berlino, il cui ruolo potrà
essere soltanto quello di presentarsi, sia pure con linguaggio sfumato, come
fautore di una alternativa diplomatica alle tensioni paramilitari di oggi. Lo
ha detto in forma “soffice”: “Se mi chiedessero di partecipare ai colloqui,
direi subito di sì”. E ha subito proposto come parallelo i colloqui
multilaterali con l’Iran, cui la Germania ha partecipato assieme ai cinque Paesi
dotati del diritto di veto, con qualche buon risultato. È vero che Trump ha
definito il trattato con l’Iran come “il peggiore di tutti i tempi” e ha
promesso nella sua campagna elettorale di “smantellare questo accordo disastroso”.
Ma tutti gli altri firmatari del patto lo hanno definito e continuano a
considerarlo una misura opportuna per rallentare “per almeno un decennio”
l’estensione all’ambito bellico i progressi compiuti dall’Iran che non hanno
per obiettivo la Bomba. “Una nuova corsa agli armamenti in quella regione – ha
detto la Cancelliera – non sarebbe nell’interesse di nessuno”. La Merkel ha già
preso contatti in proposito con il presidente cinese Xi Jinping e con il primo
ministro Abe del Giappone e ha in programma un incontro in proposito con Putin.
Sono in ballo anche gli interessi economici dell’Europa che potrebbero ridare
fiato all’economia nordcoreana che oggi dipende quasi esclusivamente dalla
Cina.