Giuseppe Salvaggiulo
Non è il decreto legge, osteggiato dai costituzionalisti e
destinato a infrangersi contro i dubbi del Quirinale, il piano B per
superare lo stallo parlamentare e rendere omogenee le leggi elettorali
di Camera e Senato. Ma un piano B esiste. Si basa su un forte
presupposto politico-istituzionale (i ripetuti e finora inascoltati
appelli del presidente della Repubblica) e su un solido impianto
tecnico-giuridico, un’ottantina di pagine riccamente argomentate. Chi
l’ha studiato negli ultimi due mesi e sta per renderlo pubblico lo
definisce «via costituzionale alla riforma», perché prevede un nuovo
ricorso alla Consulta. La Corte sarebbe investita esplicitamente della
questione e potrebbe agire chirurgicamente. L’eliminazione di alcune
parole in otto articoli della legge del Senato sarebbe sufficiente a
uniformarla a quella della Camera.
Il piano B ha anche una tempistica. Entro questa settimana deposito
della questione di incostituzionalità. Entro il 15 ottobre ordinanza del
tribunale che la solleva davanti alla Consulta. Entro il 20 gennaio
udienza alla Corte, con possibile sentenza. L’effetto politico sarebbe
duplice: paralizzare le velleità di conclusione repentina della
legislatura dopo la legge di bilancio; puntare una pistola (carica) alla
tempia del Parlamento, che in caso di ulteriore inerzia sarebbe
esautorato, per la terza volta in quattro anni, dalla Consulta.
La procedura
Attualmente le due leggi elettorali sono il frutto delle sentenze con
cui la Corte ha sancito l’incostituzionalità del Porcellum (2014) e
dell’Italicum (2017). Dalla prima sentenza residua la legge per il
Senato, dalla seconda quella della Camera. Le due leggi, così malnate,
sono spurie sotto diversi profili. In sintesi: alla Camera coalizioni
vietate, al Senato permesse; alla Camera premio di maggioranza alla
lista che supera il 40%, Senato senza premio; alla Camera soglia di
sbarramento al 3%, al Senato al 3% per le liste dentro una coalizione
che supera il 20% e all’8% per le liste solitarie; alla Camera capilista
bloccati, al Senato preferenze per tutti; alla Camera garanzia di
rappresentanza di genere uomo-donna, al Senato questione non regolata
(la Consulta ha dato un’indicazione di massima, mai applicata).
Le sentenze della Consulta erano nate dai ricorsi di un pool di
avvocati, coordinati dall’ex parlamentare dell’Ulivo Felice Besostri.
Sono un’ottantina in tutta Italia e tra il 2015 e il 2016 hanno avviato
23 cause civili in altrettanti tribunali, invocando «la pienezza e la
libertà del diritto di voto». Cinque giudici hanno sollevato le
questioni su cui la Consulta si è pronunciata a gennaio.
Dopo la notifica ai tribunali, la procedura prevede che i processi a
monte ricomincino (il termine tecnico è riassunzione) in vista della
sentenza. Ciò è accaduto in questi mesi. A Messina, primo tribunale a
dubitare dell’Italicum, dopo un’udienza estiva la sentenza è fissata per
il 29 settembre. Ma l’avvocato ricorrente, Enzo Palumbo (ex senatore
del Partito Liberale ed ex membro del Csm) sta per giocare una nuova
carta. Depositerà nei prossimi giorni un’altra istanza, per sollevare
davanti alla Consulta cinque nuove questioni di incostituzionalità delle
due leggi spurie.
Il piano B, appunto.
Le nuove questioni riguardano: soglia di accesso alla Camera,
candidature multiple alla Camera, soglie al Senato, vizio nel
procedimento di approvazione dell’Italicum. Ma è la quinta la più
importante e dirompente: la disomogeneità tra le leggi elettorali.
La stessa Corte nella sentenza sull’Italicum scriveva che «la
Costituzione, se non impone al legislatore di introdurre, per i due rami
del Parlamento, sistemi elettorali identici, tuttavia esige che, al
fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di
governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non
ostacolino, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze
parlamentari omogenee».
Esattamente il rischio dato dalle leggi spurie, cui il Parlamento non ha posto rimedio.
Non solo. Nella stessa sentenza, la Corte tracciava le modalità
tecniche con cui eventualmente riproporre la questione della
disomogeneità. La strada che il pool di giuristi ha ora deciso di
percorrere.
Le conseguenze
Se il tribunale di Messina dovesse accogliere l’istanza e sollevare
la nuova questione costituzionale, la palla tornerebbe alla Consulta.
Che avrebbe in mano la pistola per sparare il colpo decisivo e rendere i
sistemi elettorali omogenei. La chiave è una norma del sistema del
Senato finora dimenticata: «Per tutto ciò che non è disciplinato dal
presente decreto si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni
del testo unico delle leggi per l’elezione della Camera dei deputati».
Tanto basterebbe a eliminare anche per il Senato coalizioni e soglie di
accesso differenziate, introducendo capilista bloccati, preferenze di
genere e premio al 40%. E l’omogenità sarebbe cosa fatta.
Resta il problema del premio di maggioranza: se lo prendono due liste
diverse alla Camera e al Senato? Questione delicata. Il pool di
avvocati invoca «uno slancio creativo»: se i vincitori sono diversi nei
due rami del Parlamento, i premi non si attribuiscono.