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Jair Bolsonaro prossimo dittatore del Brasile


Alberto Pasolini Zanelli

È durato meno di trent’anni lo sforzo di consolidare la democrazia nel Paese più vasto e popolato dell’America Latina. Il Brasile ha ritrovato le libere elezioni ma, nel campo del nuovo esperimento, ha scelto il meno democratico: ha raggiunto l’obiettivo di una maggioranza stabile ma al costo di ridurre al minimo le libertà parlamentari e presto, probabilmente, anche le altre libertà politiche. Il nuovo presidente della Repubblica, Jair Bolsonaro, ha fatto finora un altro mestiere: il militare (attualmente è capitano), ma non l’ha usato per la difesa e la garanzia della libertà bensì, nella migliore delle ipotesi, la difesa senza limiti dell’Ordine. Senza un’ideologia ma con un elenco di valori di questo ordine. Al colmo della soddisfazione e probabilmente della felicità, ha già cominciato a spiegare alla gente a quali principii e precedenti egli intenda rifarsi: una dittatura. Quella che aveva retto il Brasile fino a un quarto di secolo fa con il vigore, il diritto e l’intransigenza delle armi. Dei generali, non dei colonnelli che mezzo secolo fa conobbe la Grecia.

Era così, del resto, l’intera America Latina, lucida di uniformi e di canne di fucile. Il Brasile si distingueva dai “fratelli” soprattutto per le dimensioni e per la resistenza del regime ai soprassalti che lo facevano tremare e spesso anche cadere, succeduti da democrazie fragili o caotiche, che rendevano inevitabile il ritorno al vertice dei gallonati. Con l’eccezione dell’Argentina, dove Juan Domingo Peron, militare di carriera, seppe conquistarsi in poco tempo il favore e l’amore delle masse, soprattutto dei poveri, quelli che scandivano “Argentina sin Peron es un barco sin timon”. Peron governò, cadde, tornò, ricadde e tornarono più di una volta i suoi emuli.

Il Brasile è sempre stato diverso. È un Paese più ricco, ma ci sono più poveri e più apolitici. L’ordine pubblico è stato sempre in condizioni peggiori. Il potere degli oligarchi più solido, ma l’opposizione popolare più robusta e veemente e le forze armate tenacemente dalla parte della destra, soprattutto economica. Si espresse a lungo in una dittatura, inviolabile all’opposizione tradizionale. Ad abbatterla fu, un quarto di secolo fa, un operaio, Lula il Metallurgico. Conquistò il potere in una libera elezione e si dedicò a trasformare il Paese, da sinistra, senza essere disturbato dai generali e raccogliendo il consenso delle masse. Vinse tutte le elezioni in cui si presentò. La Costituzione prevedeva dei limiti e dei cambi di nome e ogni volta Lula scelse e fece eleggere dei suoi fedeli. Il più pittoresco è stato l’ultimo, Dilma Rousseff, una ex guerrigliera che nel suo passato aveva l’organizzazione “rivoluzionaria” della rapina in una banca, prima di diventare ministra dell’Economia e poi capo dello Stato. Non ebbe fortuna, anche perché la recessione economica non risparmiò il Brasile. Ma colpì soprattutto gli imprenditori e il ceto danaroso, che si buttò nell’onda. Suo alleato preferito e più potente, la magistratura, che dichiarò guerra al potere politico populista usando (anche in Brasile) l’arma della “lotta alla corruzione”: un deputato su tre è già sotto accusa. Come primo obiettivo Dilma fu rovesciata infine da un voto del Parlamento, che contava già un numero rilevante di “transfughi”.

La sostituì uno dei suoi “esecutori”, un “moderato” di nome Temer, gestore delle Olimpiadi. Ma poco dopo fu lui ad essere incriminato e strappato al potere. Diventavano inevitabili le nuove elezioni e c’era un candidato imbattibile: Lula il Metallurgico. Bisognava “sistemare” anche lui e si trovò la scusa processandolo e condannandolo per essersi fatto regalare una casetta sulla spiaggia in cui egli non abitò mai. Ma gli fu proibito di presentarsi alle Presidenziali, in teoria per la piccola scorrettezza, in realtà perché avrebbe vinto. Il favorito diventò così il secondo della lista, Jair Bolsonaro, idolo temporaneo dell’estrema destra, che si trovò quasi senza concorrenti. Non un debole candidato della sinistra, popolare nelle grandi città, sostenuto dalle elite finanziarie, dai cattolici e dalle forze armate. Prometteva una ripresa economica, ma soprattutto dell’ordine. Aveva, e probabilmente ha, un modello originale per il Sud America: Donald Trump, fra i primi a mandargli una congratulazione per la sua vittoria. Quello che non ha finora detto ma molto probabilmente pensa l’“uomo forte” della Casa Bianca è un “contatto stretto e ovviamente molto amichevole”. Uno dei messaggi di Bolsonaro alle masse era stato questo: “Se gli Stati Uniti hanno eletto un Trump, così può fare anche il Brasile”. Dieci anni fa, al suo debutto in politica, Bolsonaro fu definito “un clown”, ma erano già in molti sensibili al suo fascino.