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Enrico Letta per il PD che verrà: tra recupero della base e maggioritario


Il Pd che verrà, tra recupero della base e maggioritario

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 14 marzo 2021

Avendo per molti anni goduto dell’amicizia e della collaborazione di Enrico Letta, sono certamente la persona meno adatta per riflettere sul suo improvviso arrivo nella scomoda carica di segretario del Partito Democratico.

L’amicizia mi avrebbe spinto a chiedergli quale era la logica per cui stava lasciando il ruolo fino ad ora ricoperto nella prestigiosa scuola di SciencesPo di Parigi per assumere un incarico tanto complesso e rischioso.

La collaborazione a Palazzo Chigi, quando era Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, mi ricorda invece che questo suo ritorno era nella natura delle cose: la passione politica e il legame con l’Italia sono in lui così forti da prevalere su qualsiasi altra scelta.

Bisognava solo che si presentasse il momento che, in questo caso, è stato imprevisto e improvviso.

Proprio per questo non mi sento di dargli alcun consiglio ma, data la differenza d’età, mi sento tuttavia in dovere di riflettere sulla situazione in cui Enrico Letta si troverà ad operare, nella speranza che si tratti di un periodo più lungo di quello dei suoi predecessori, nessuno dei quali è riuscito a completare il necessario processo di fusione fra le diverse forze riformiste che si erano opportunamente riunite in un partito. O, forse, è più esatto prendere atto che vi è stata una certa convergenza nelle idee, ma non nei gruppi dirigenti.

Il risultato è che, come scrive acutamente l’Economist, le riforme che Letta dovrà affrontare sono esattamente quelle che erano già sul tavolo nel 2007, quando il PD è stato fondato.

Durante questo lungo periodo di tempo la preoccupazione per l’unità, incoraggiando l’unanimismo, ha impedito le scelte che un partito deve compiere e ha reso sempre più fragile il rapporto con i suoi elettori. Un rapporto che va ripristinato non più con un messaggio dall’alto verso il basso, ma con un ampio e prolungato processo di consultazione che superi gli iscritti al partito e si estenda a tutta la società civile.

I limiti posti dal Covid possono, paradossalmente, costituire una grande occasione per discutere a fondo di problemi e di scelte.

Non dall’alto verso il basso e non con la leggerezza dei Tweet, ma con gli approfondimenti necessari per prendere le decisioni in un mondo che è cambiato nella realtà delle cose e nei modi di formazione degli obiettivi individuali e collettivi.

La preoccupazione di mediare ad ogni costo ha, fino ad ora, prodotto la paralisi. Se il Pd ha dovuto contare sette diversi segretari nello spazio di poco più di tredici anni, ciò non può essere imputato a una semplice crisi di leadership, ma a una prolungata crisi di identità. Un’identità che può essere recuperata solo con scelte capaci di comprendere e fare proprie le esigenze degli italiani, traducendole in decisioni politiche.

L’Italia è stata sfibrata da periodici momenti di apparente partecipazione, che si sono progressivamente trasformati in semplici riti. La ripetizione di questi riti, invece di avvicinare le nuove generazioni alla politica, le ha deluse e allontanate. Coloro che partecipano ad un’iniziativa politica debbono infatti sentire la possibilità di influenzare i processi decisionali, almeno nel campo in cui sono stati partecipanti attivi.

Anche se le attuali indagini demoscopiche non lo pongono certo al primo posto, il ruolo del Pd per guidare i processi democratici in questa direzione è essenziale.

In primo luogo il PD è l’unica struttura politica che può essere considerata erede della Costituente e della Prima Repubblica: un’eredità da rendere compatibile con la società attuale ma che, in ogni caso, non può rinunciare al compito di governare le trasformazioni e i conflitti sociali.

Questo compito può essere affrontato solo dotandosi di procedure e strutture chiare e stabili, come mai è avvenuto fino ad ora. Il Pd, per sua natura, non può fondarsi su regole che cambiano ogni settimana.

Un grande partito non deve tuttavia avere come obiettivo solo la sua stabilità interna, ma ha l’obbligo di contribuire alla stabilità del paese in cui opera. Questo, in Italia, significa promuovere una legge elettorale strutturata in funzione degli obiettivi di lungo periodo dell’intero paese e non dei propri immediati interessi elettorali. Ritengo che questi obiettivi siano raggiungibili solo da un sistema maggioritario, l’unico che può garantire, insieme, la stabilità del governo e il diritto dell’elettore di sapere in quale direzione il suo voto sarà poi utilizzato.

Un terzo grande compito attende di essere messo in atto dal nuovo segretario del PD: quello di trasformare il partito da semplice partito europeista, cioè a dire non anti europeista, a protagonista della nuova politica europea.

Questo passaggio è ora reso possibile dalla necessaria interazione fra Mario Draghi alla presidenza del Consiglio e Enrico Letta alla segreteria del partito. Si tratta quindi di un obiettivo finalmente alla nostra portata. Per avere un ruolo in Europa non basta infatti avere in posizione di potere dei politici europeisti. Oggi possiamo contare su politici unanimemente riconosciuti non solo come europeisti, ma come leader europei.

Se essi non portano in Europa l’intero paese noi continueremo ed essere marginali proprio dove vengono prese le decisioni più importanti sul nostro futuro.

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