Politica dei dazi: la risposta dell’Europa alle strategie di Usa e Cina
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 21 marzo 2021
Mentre siamo giustamente concentrati sui problemi della pandemia, il mondo cambia e non ce ne accorgiamo. Vado subito al sodo. A dispetto di tutte le tensioni fra democratici e repubblicani, il Senato americano ha approvato all’unanimità (il che vuol dire 98 a 0) la nomina della signora Katherine Tai nell’importantissimo ruolo di United States Trade Representative, cioè di responsabile della politica commerciale degli Stati Uniti d’America.
Il voto è avvenuto dopo che la signora Tai si era espressa in modo nettamente contrario rispetto alla tradizionale e condivisa dottrina in favore del “free trade”.
Nel dibattito del Senato americano è stata perfino sepolta la tesi, dominante negli ultimi quarant’anni, fatta eccezione per la parentesi di Trump, che i buoni rapporti commerciali erano anche in grado di ammorbidire le tensioni politiche esistenti tra i diversi paesi e, soprattutto, fra Cina e Stati Uniti. Il mondo politico americano oggi non si dedica in modo prevalente a mettere in luce i problemi politici che stanno aumentando la distanza dalla Cina, come la crescita del suo autoritarismo, gli abusi nei confronti delle minoranze o l’aumento delle spese militari.
Il sentimento che oggi fa più presa nel cuore del popolo americano è che il libero commercio abbia colpito i lavoratori americani in modo sproporzionato e che l’abbassamento dei dazi commerciali abbia fallito nel perseguimento del tanto decantato obiettivo di accrescere il benessere collettivo. Il cittadino medio, dopo essersi innamorato dei bassi prezzi di Walmart e dei nuovi sistemi distributivi, oggi li accusa di uccidere i posti di lavoro.
Questi cambiamenti si sono già tradotti in programma di governo dal momento che lo stesso Segretario di Stato Blinken ha parlato del “free trade” come di un fatto del passato, al quale si credeva perché non se ne erano compresi a sufficienza gli effetti negativi.
Come conseguenza, la priorità del governo americano non è oggi il primato dei consumatori e degli esportatori, ma la protezione dei diritti e degli interessi dei lavoratori americani. A tutto ciò si accompagna una serie di nuove ricerche accademiche dedicate a mettere in luce la quantità dei posti di lavoro perduti in conseguenza della concorrenza cinese.
Si mette completamente in un angolo la tesi, tradizionalmente condivisa dalla quasi totalità dell’opinione pubblica americana, che l’aumento di reddito conseguente all’aumento del commercio internazionale, si sarebbe automaticamente tradotto in un vantaggio per tutti.
Questi orientamenti sembrano rendere sistematiche, e proiettate verso un indefinito futuro, le scelte protezionistiche che erano da molti ritenute un’estemporanea decisione del presidente Trump. Una rivoluzione che, se sarà messa in atto in modo generalizzato, avrà conseguenze non solo sul commercio internazionale, ma sul funzionamento di tutti i sistemi economici.
Prima di tutto tale scelta obbligherà a una profonda riorganizzazione della catena del valore delle imprese, riducendo la dipendenza reciproca che ora esiste fra i produttori sparsi in tutto il mondo, nessuno dei quali controlla l’intero ciclo produttivo. Le imprese dovranno quindi progressivamente operare in modo da avere a disposizione componenti e materiali con la sicurezza che, in questo nuovo quadro, è garantita solo dall’appartenenza alla stessa area commerciale.
Tutto questo implica, in secondo luogo, un massiccio intervento pubblico dedicato a raggiungere, nel più breve tempo possibile, l’obiettivo dell’autosufficienza non solo nei settori tecnologicamente più avanzati (come i componenti elettronici, i nuovi strumenti di comunicazione o i nuovi materiali), ma anche nei prodotti più semplici che fanno parte integrante di una catena produttiva.
L’intervento pubblico non viene richiamato in gioco come fatto eccezionale per porre rimedio ai recenti danni del virus, ma come strumento permanente per affrettare il salto scientifico-tecnologico necessario per arrivare al grado di autonomia richiesto dai cambiamenti della politica internazionale.
Non si tratta di un quadro riassicurante né sotto l’aspetto politico né sotto l’aspetto economico perché, se portato all’estremo, restringerà la collaborazione fra le due potenze mondiali unicamente al settore dell’ambiente che, tuttavia, per potere progredire, richiede proprio quell’incremento delle collaborazioni scientifiche e produttive che sono messe a rischio dalle politiche illustrate in precedenza.
Le conseguenze maggiori di questo cambiamento di prospettiva riguardano soprattutto l’Europa che si fonda, più degli Stati Uniti, su una strategia di apertura commerciale che coinvolge tutti i settori e che, soprattutto, si indirizza verso tutti i paesi del mondo.
Di fronte alla prospettiva di questo diverso contesto dei flussi commerciali, di una nuova politica degli incentivi pubblici e del cambiamento di indirizzo della ricerca, noi europei abbiamo l’obbligo di preparare una strategia a livello continentale che ci permetta di fare fronte alle sfide che gli Stati Uniti e la Cina stanno apprestando. Anche la politica del NextGenerationUE deve essere adattata al nuovo quadro internazionale nel quale siamo chiamati ad agire. Ed è indispensabile che l’Italia, ancora secondo paese industriale europeo, si faccia parte diligente per spingere Bruxelles a prendere le necessarie decisioni e prepari, con assoluta urgenza, le proposte che riteniamo per noi opportune.
Non sarà forse possibile mostrare lo stesso grado di compattezza manifestata dal Senato americano, ma una strategia italiana largamente condivisa è ora possibile. Cerchiamo almeno di cominciare a prepararla.
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