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Fame: USA e Cina pongano fine alla guerra “mondiale”



Il caso Africa – La guerra “mondiale” e il ruolo di Usa e Cina


Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 23 ottobre 2022

Già prima della guerra di Ucraina la disponibilità di alimenti per la maggior parte degli africani stava pericolosamente diminuendo. Questo in conseguenza del Covid, di lunghi periodi di siccità in molte regioni del continente e di un processo inflazionistico che, accompagnato da ripetute svalutazioni delle monete nazionali, aveva gravemente peggiorato le possibilità di accesso al cibo per una crescente parte degli africani.

Poi è arrivata la guerra a bloccare le esportazioni di grano da Russia e Ucraina, fino allora i più grandi esportatori di cereali nel continente africano. Per qualche settimana l’intero pianeta ha espresso un’angosciata preoccupazione per le tragiche conseguenze che tutto questo comportava.


Questa condivisa preoccupazione ha, dopo lunghi negoziati, portato all’accordo di Istanbul, che ha riaperto le possibilità di esportazione dei cereali dal Mar Nero. Da allora il problema della fame in Africa è scomparso dalle cronache, come se tutto fosse stato risolto con la riapertura del porto di Odessa.

Le esportazioni, tuttavia, non solo soffrono dei limiti quantitativi dovuti alla guerra, ma sono anche sottoposte a rigorosi controlli, per effetto dei quali le navi sono trattenute in porto per quasi quindici giorni. Inoltre l’accordo stesso scade a fine mese e non è ancora stato rinnovato. Nel frattempo i prezzi dei cereali sono impazziti e, di conseguenza, solo il 26% dell’export di grano dal Mar Nero raggiunge i paesi che non hanno le risorse adeguate per acquistarlo. Ovviamente i paesi africani sono gli ultimi ad essere serviti e mai nelle sufficienti quantità e a prezzi accessibili.


A questo si aggiunge, in modo sempre più acuto, la mancanza di offerta di fertilizzanti, prodotti in misura determinante da Russia e Ucraina.

Appena scoppiata la guerra i loro prezzi sono raddoppiati in tutta l’Africa Orientale e, più procede la stagione delle semine, più diventano evidenti le prospettive di un’ulteriore flessione della produzione agricola, con una particolare intensità in Etiopia, Kenya e Somalia dove, all’aumento dei costi, si aggiunge la vera e propria mancanza dei fertilizzanti.

In Etiopia, solo per fare un esempio che ha però carattere generale, i prezzi degli alimenti sono cresciuti del 54% (cinque volte rispetto alla media mondiale) e le quotazioni dei cereali addirittura del 70%.

Se tutto questo non bastasse, il turbamento dei mercati si è esteso al riso, altro nutrimento fondamentale dei paesi africani.


Non solo si sono gonfiati i listini ma, per prevenire future scarsità, i grandi paesi produttori, a partire dall’India, hanno posto limiti e imposto dazi aggiuntivi alle esportazioni.

Infine, come sempre avviene in questi sconvolgimenti, i grandi trader hanno acquistato un potere di mercato crescente e inviano i prodotti dove sono disponibili le risorse, aumentando i propri profitti e emarginando le aree con minore potere d’acquisto.

Per comprendere a pieno le conseguenze di questi eventi basta ricordare che l’inflazione dei prodotti alimentari colpisce con particolare violenza le fasce più povere. Infatti, nei paesi a basso reddito, i due terzi delle risorse delle famiglie vengono spesi in prodotti alimentari mentre, nei paesi più avanzati, la percentuale dedicata all’acquisto del cibo non raggiunge il quarto del reddito delle famiglie.


Anche se non è certo facile riassumere le conseguenze finali di questi drammatici avvenimenti in espressioni numeriche, è doveroso ricordare che la guerra di Ucraina, secondo i dati dell’UNDP (United Nations Development Program), ha creato 71 milioni di nuovi poveri in una fase storica in cui il Covid, l’inflazione e le conseguenze dei cambiamenti climatici avevano già portato allo stremo le risorse dei paesi a più basso reddito.

Nonostante il peggioramento degli equilibri alimentari provocato direttamente o indirettamente dalla prosecuzione della guerra, le crescenti conseguenze negative sui paesi più poveri sono progressivamente scomparse dall’agenda dei grandi media e dei decisori politici.

Vi è stato nello scorso settembre un incontro di lavoro a Parigi, dedicato proprio a come assicurare l’accesso ai cereali e ai fertilizzanti da parte dei paesi africani.


Una riunione a cui hanno partecipato la Commissione Europea, la Commissione Africana, i vari organismi delle Nazioni Unite, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale.

Ne sono emerse concrete proposte su come intervenire per alleviare le tensioni dei mercati, per sostenere la produzione e il commercio dei fertilizzanti e per mitigare le tensioni di cui abbiamo fatto parola. A questa corretta analisi non è tuttavia seguita alcuna mobilitazione dei governi e delle stesse organizzazioni internazionali.

L’inflazione e la guerra monopolizzano in modo totale l’attenzione dei decisori di tutto il mondo, mentre l’Africa sta tornando indietro, senza voce. Tutto questo non si vede, sembra quasi non esistere e nessuno lo dice, salvo i volontari che in Etiopia, Uganda, Tanzania e Sud Sudan vedono morire i bambini per effetto della denutrizione, mentre i prezzi del pane, dei medicinali e del carburante salgono a livelli irraggiungibili.


Si dimostra ancora una volta che la guerra di Ucraina è davvero un “pezzo” di una vera e propria guerra mondiale, che provoca diffuse e drammatiche conseguenze in tutto il pianeta.

Non resta che sperare che, finito il Congresso del Partito Comunista Cinese e lasciate alle spalle le ormai prossime elezioni interinali americane, Stati Uniti e Cina si mettano finalmente a dialogare e ad accordarsi urgentemente sulle soluzioni capaci di porre termine a questa grande tragedia.

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