La giustizia sociale e la crescita di un Paese
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 09 ottobre 2022
Almeno fino ad ora la Brexit non ha portato fortuna alla Gran Bretagna.
L’uscita dall’Unione Europea era vista dai suoi sostenitori come la fine di un vincolo che impediva a Londra di diventare il centro della finanza mondiale e alla Gran Bretagna di giostrare fra Stati Uniti ed Europa, con una libertà che avrebbe permesso una crescita economica e una prosperità senza confronti.
Le cose sono andate in modo diverso. Il progressivo distacco dall’Europa, verso cui si dirige ancora la gran parte del commercio britannico, non è stato compensato da un inesistente rapporto privilegiato con gli Stati Uniti.
Londra non è diventata la “Singapore sul Tamigi” come i sostenitori della Brexit avevano incautamente previsto. Le tensioni politiche interne hanno fatto il resto, fino a provocare la caduta del governo di Boris Johnson.
La nuova compagine governativa, presieduta da Liz Truss, ha pensato di iniziare una fase di crescita impetuosa con una politica che, qualche decennio prima, era stata con successo lanciata da Margaret Thatcher. Su consiglio del fantasioso Cancelliere dello Scacchiere è stato quindi lanciato un progetto di riduzione fiscale che, insieme a corposi sussidi volti a temperare il rincaro dell’energia, avrebbe dovuto dare nuovo slancio all’economia.
La decisione non ha tuttavia tenuto conto di quanto le cose siano cambiate. In primo luogo il combinato disposto fra diminuzione di imposte e aumenti dei sussidi necessari a fare fronte ai rincari dell’energia, ha aperto le porte a un deficit del bilancio pubblico che, pur non essendo di dimensioni incontrollabili, ha provocato un vero e proprio terremoto nei confronti della sterlina, dei titoli pubblici britannici e, perfino, un giudizio negativo del Fondo Monetario Internazionale.
Alla mancata riflessione sulla possibile reazione dei mercati, si è aggiunto un imperdonabile errore di politica interna. Il provvedimento conteneva un corposo beneficio fiscale per i redditi più elevati, provocando da un lato un impressionante aumento delle preferenze all’opposizione laburista e, dall’altro, una vera e propria rivolta anche tra i deputati conservatori che sostengono il governo.
La ribellione è arrivata al punto da costringere il Cancelliere dello Scacchiere a eliminare l’aspetto più odioso della sua precedente decisione. Quest’immediata e plateale marcia indietro ha posto rimedio a un’ incomprensibile ingiustizia, ma non è stata sufficiente a diminuire la preoccupazione dei mercati nei confronti del deficit e, nello stesso tempo, ha danneggiato in modo irreparabile la credibilità del governo.
Il maggiore errore del provvedimento sta tuttavia nel fatto che, rispetto ai tempi della Thatcher, il mondo è cambiato e ancora di più è cambiata l’opinione pubblica britannica.
Un mutamento che nasce dalla crisi della globalizzazione e dalle tensioni politiche che l’hanno prodotta. Siamo infatti entrati in una fase di paura e di minore solidarietà, una fase in cui nessun indebitamento ritenuto fuori misura viene perdonato, nemmeno ad un paese che, come la Gran Bretagna, ha sempre goduto di un’assoluta e illimitata fiducia da parte della finanza internazionale.
E’ doveroso infatti ricordare che tutta questa tempesta è stata originata da un deficit di bilancio non certo senza confronti. Si tratta infatti di un peggioramento di poco superiore all’1% rispetto al deficit previsto in precedenza.
Non solo è uno scostamento minore rispetto a quelli che ha ripetutamente sperimentato il nostro paese ma, anche in Gran Bretagna, questo deficit non avrebbe in passato provocato una reazione di questa portata.
La crisi della globalizzazione, la crisi energetica, le tensioni politiche e commerciali e la guerra di Ucraina hanno aumentato le paure e moltiplicato le dimensioni e la velocità delle reazioni negative dei mercati. La sovranità fiscale è ormai ridotta anche in Gran Bretagna. Una lezione sulla quale è ancora più opportuno meditare in Italia.
Conviene tuttavia riflettere ancora sulle reazioni negative nate all’interno della Gran Bretagna di fronte ad una decisione governativa che vedeva nella diminuzione delle imposte lo strumento necessario per aumentare la crescita.
La maggioranza dei cittadini, interpellati in una inchiesta ad hoc, ha infatti risposto che la crescita non può essere perseguita a scapito di un aumento delle disparità che la nuova politica fiscale avrebbe prodotto.
Dopo decenni nei quali, a partire dalla Gran Bretagna, ma non solo in Gran Bretagna, la preferenza popolare ha sempre sostenuto tutti i politici che promettevano una diminuzione delle imposte come unico (anche se non dimostrato) strumento di crescita, stiamo entrando in una nuova fase di riflessione più meditata.
Una fase nella quale, a somiglianza di quanto avveniva in tutti i paesi europei fino agli anni ottanta, la politica si fonda su una valutazione più complessiva dei costi e benefici delle diverse scelte.
Tutti i governi, a partire da quello italiano, saranno quindi sempre più obbligati a mettere in atto una politica di crescita che, per potere essere realizzata, deve essere accompagnata da un delicato equilibrio fra le esigenze di bilancio e gli obiettivi di giustizia distributiva. Il tutto in un quadro internazionale sempre più reattivo e condizionante. Un compito per noi necessario anche se non facile da svolgere.
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