Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero
Negli ultimi mesi non solo siamo stati testimoni di cambiamenti politici senza precedenti ma si è anche assistito ad un rovesciamento radicale
delle politiche commerciali dei due grandi protagonisti della politica
mondiale. Gli Stati Uniti si sono trasformati in paladini del
protezionismo e la Cina si è presentata al vertice di Davos come il
leader mondiale del libero commercio. Molto si è detto e scritto sulle
ragioni di politica interna che hanno spinto Trump a pronunciarsi a
favore del protezionismo ma non abbastanza sulle ragioni che spingono la
Cina a vedere il proprio futuro economico sempre più fondato sul libero commercio nonostante la tumultuosa crescita dei salari interni verificatasi negli ultimi anni.
Infatti, secondo i dati di Euromonitor recentemente riportati dal Financial Times,
i salari orari del settore manifatturiero cinese si sono triplicati
negli ultimi dieci anni e ora non solo sono superiori a quelli del
Brasile e del Messico ma hanno superato i due terzi del costo orario di
due paesi dell’Unione Europea come Portogallo e Grecia. Non si hanno
inoltre segnali che l’aumento del costo del lavoro cinese abbia un
prevedibile termine. Si tratta di un cambiamento radicale:
basta pensare che trent’anni fa si calcolava che il costo del lavoro
cinese fosse un quarantesimo del costo italiano. Tutto questo ha
provocato una doppia trasformazione. Da un lato ha spinto verso l’alto
gli investimenti e il ritmo di innovazione cinese, causando un aumento
della produttività superiore alla crescita dei salari. Da un altro lato
ha provocato un crescente trasferimento delle produzioni più semplici e
ad alto contenuto di mano d’opera verso le aree con costi del lavoro più
bassi, come i paesi asiatici circostanti fino ad arrivare all’Etiopia.
La Cina si trova quindi sempre più a competere con le produzioni
dei paesi industriali più avanzati, ed in particolare modo con gli
Stati Uniti e l’Unione Europea ma, ancora più di loro, ha bisogno di
esportare per bilanciare l’impressionante quantità di importazioni di
cui ha necessità. La Cina può infatti contare solo sul 7% delle terre
coltivate del mondo ma deve nutrire il 20% della popolazione del nostro
pianeta ed è incredibilmente scarsa di fonti di energia e di materie
prime.
Se vuole continuare a crescere
la Cina ha più di ogni altro bisogno di importare e, quindi, di
esportare, anche perché la crescita dei consumi interni procede a ritmo
più lento del previsto: le mancanze del sistema pensionistico e del
sistema sanitario pubblico spingono infatti i cittadini a risparmiare
più che a consumare. Nello stesso tempo il ritmo degli investimenti in
infrastrutture non può continuare a procedere col ritmo spaventoso avuto
in passato, non solo in conseguenza del forte livello di indebitamento
del governo, ma anche per l’eccesso di capacità produttiva generato in
molti settori industriali come quello del cemento o dell’acciaio.
Le esportazioni saranno quindi strategiche ancora a lungo per il futuro
della Cina ma esportazioni diverse. Nei settori concorrenziali saranno
meno fondate sui prezzi e invaderanno produzioni sempre più sofisticate e
tecnologicamente avanzate. Anche gli investimenti pubblici prenderanno
tuttavia sempre più la via dell’estero. La grande strategia della Via della Seta
( One Belt One Road) è solo in parte dedicata all’aumento del commercio
con l’Europa ma si sta concretizzando soprattutto in crescenti
investimenti in infrastrutture, opere pubbliche e poli industriali nei
paesi confinanti, fino ad arrivare al Pakistan all’Iran.
Il tutto accompagnato naturalmente da investimenti produttivi e
dall’acquisto di imprese nei paesi industriali più avanzati, non solo
con lo scopo di penetrare più facilmente in quei mercati ma,
soprattutto, per affrettare l’acquisto delle tecnologie necessarie a
mettere in atto la strategia di ascesa nel livello tecnologico.
Per
tutti questi motivi non dobbiamo stupirci che l’unico grande paese del
mondo ancora comunista sia diventato il paladino del libero commercio.
Più complicato è invece spiegare
come la nuova presidenza americana possa mettere in atto le restrizioni
alle importazioni dalla Cina, anche se quest’obiettivo è stato uno
degli elementi fondamentali della campagna elettorale di Trump.
Gli
investimenti e il decentramento delle produzioni delle imprese
americane in Cina hanno infatti raggiunto un livello così pervasivo che
un cambiamento di strategia provocherebbe danni incommensurabili al
sistema produttivo americano. I casi di progettazione in USA e
fabbricazione in Cina riguardano ormai tutti i settori, da quello
dell’elettronica alla componentistica meccanica, con prospettive di
intensificazione in campi ancora più delicati come quello aeronautico.
Una guerra ad oltranza vedrebbe tutti perdenti, ma ad essere danneggiati sarebbero soprattutto gli Stati Uniti.
Oggi appare più probabile un compromesso,
per evitare uno scontro fatale e per cercare di porre regole e limiti
alla globalizzazione. Questo compromesso conviene infatti a tutti e due i
giganti dell’economia e della politica mondiale. In fondo anche la
campagna elettorale americana è ormai un ricordo.