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Assai impopolare, non tanto per quello che fa, ma per quello che dice e soprattutto per come lo dice.



Alberto Pasolini Zanelli
Un paio di giorni fa la prima pagina di uno dei più autorevoli quotidiani degli Stati Uniti si apriva con questo titolo: “Per il momento niente guerra nucleare con la Corea del Nord”. Era da giorni in cui non si parlava d’altro, i governi si scambiavano minacce e ultimatum. Il dittatore di Pyongyang faceva pubblicare i confini precisi della capacità nucleare del suo penultimo missile: Washington e New York erano al sicuro, Roma no. È vero che i nordcoreani non hanno mai dimostrato molto interesse per l’Italia né commerciale né militare. Il rischio più immediato comunque era quello di Guam, un’isola americana prevalentemente militare, isolata nel Pacifico ma relativamente prossima alla penisola coreana.
In questa situazione l’annunciato rinvio di una guerra mondiale fitta di atomiche era una notizia, potenzialmente di importanza centrale. Adesso la Corea è quasi sparita da giornali e telegiornali, da quando Donald Trump ha lodato Kim Jong-un per il suo “buonsenso”. Ed è stato ricambiato. Si sono abbassati i toni perfino con l’Iran (sempre il nemico numero uno degli Usa). È durato due giorni in tutto il preannunciato ultimatum al Venezuela scosso da una guerra civile e da una povertà da fame. È spuntata, è vero, una accusa contro l’Ucraina che avrebbe fornito alla Corea del Nord qualche aggeggio che potrebbe servire a completare i missili dell’atomo. Paiono migliorare, invece, i rapporti con la Russia, perlomeno nei toni: dopo che il Congresso di Washington aveva imposto a Trump di comminare nuove sanzioni, Putin ha risposto scherzando, rimandando a casa alcuni funzionari americani e i due leader si sono trovati d’accordo nel compiacersi perché così lo Stato risparmia denari: sono tempi duri per tutti.
Perché questa improvvisa e paradossale bonaccia dopo una burrasca degna della Guerra Fredda? Perché l’umore bellicoso si è trasferito dentro le frontiere degli Stati Uniti. Prima in Virginia, poi a Washington, infine un po’ dappertutto. Una specie di guerra civile, anche perché le sue origini sono le memorie ripescate della Guerra Civile autentica, quella conclusa un secolo e mezzo fa. Il bersaglio sono i suoi generali, quelli di parte sudista, sconfitti ma fino a ieri l’altro presenti sulle piazze e nei musei e nei fasci di bandiere della defunta Confederazione. Da qualche tempo rilanciata nella memoria come colpevole di buona parte dei problemi politici attuali dell’America. Durante la presidenza Obama c’erano stati, per motivi estranei alla sua conduzione della Casa Bianca, scontri violenti e sanguinosi fra manifestanti in genere di pelle nera e poliziotti di tutti i colori, dalla pistola troppo pronta e anche di altre armi normalmente da guerra. Obama deplorava queste tragedie in parte evitabili, molti repubblicani difendevano le brutalità poliziesche, soprattutto per poter addosso al presidente.
Adesso i ruoli si sono rovesciati. Alla Casa Bianca c’è un repubblicano, la polizia sta più attenta, in piazza non ci vanno più solamente giovani di colore a scandire lo slogan “Il sangue nero conta”, ma contestatori di tutti i colori e di molte cause, particolarmente delle femministe che non mandano giù, con buoni motivi, il linguaggio del presidente nei confronti delle donne in genere. L’economia va nel complesso bene o almeno benino, non ci sono guerre contro cui alzare il vessillo della pace: c’è un presidente discutibile e discusso, momentaneamente assai impopolare, non tanto per quello che fa, ma per quello che dice e soprattutto per come lo dice. Al fuoco concentrato contro di lui Trump crede di potersi difendere ripescando gli argomenti e il linguaggio che gli hanno permesso di vincere le elezioni. Ma che sono ad un tempo fantasiosi ed aspri e che vengono presi a pretesto per accentuare le polemiche fino alla richiesta di improbabili dimissioni o addirittura di un procedimento di impeachment. Uno dei “fronti” di moda è la presenza nella maggioranza di elementi di destra accentuata con toni con filoni ultranazionalisti, molto conservatori e in molti casi razzisti, che producono una mobilitazione sul fronte opposto. Il pretesto oggi più popolare sono le statue dei protagonisti del passato politico del Sud, soprattutto militare. La “battaglia” di Charlottesville è nata dalla protesta contro la decisione di trasferire o abbattere la statua di Robert Lee, eroe sudista della Guerra Civile. L’estrema destra è andata a protestare, l’estrema sinistra l’ha attaccata, entrambe con “guerrieri” armati di bastoni e scudi. Non ci sono stati grossi incidenti, tranne una donna travolta da un pilota “distratto” e comunque a manifestazione conclusa. Di qui il terremoto politico: una mobilitazione contro Trump che unisce democratici e repubblicani, l’aristocrazia politica e il grande capitale e una serie di risposte presidenziali vaghe e contraddittorie. Di dialogo finora non si parla. In questi giorni l’America è governata da un terremoto.