Alberto
Pasolini Zanelli
Messaggio da
Washington alla Corea del Nord: trattiamo. Lo dicono, in coro o quasi, tutti i
massimi esponenti dell’amministrazione Trump (pochi giorni dopo aver proclamato
uno stato di allarme come conseguenza dei progressi missilistici della Corea
del Nord, a cominciare dal Segretario di Stato Tillerson, che ha lasciato fra
l’altro circolare la voce secondo cui egli sarebbe pronto a recarsi di persona
a Pyongyang: a spiegare a Kim Jong-un che l’America “non ha intenzione di
deporre il governo nordcoreano né di usare la forza militare”. L’unica strada
aperta, perlomeno quella che si delinea nelle ultime ore, è quella del dialogo.
Evidentemente anche Trump è di questa opinione e lo ha lasciato intendere in
uno dei suoi interventi “ufficiosi”. Ma il suo ministro degli Esteri è stato
esplicito: “Noi non cerchiamo un cambio di regime. Non desideriamo che questo
regime crolli. Non cerchiamo una riunificazione anticipata delle due Coree. Non
cerchiamo una scusa per fare avanzare il nostro esercito al Nord del
trentottesimo parallelo”. Insomma, ai coreani del Nord dice: “Noi non siamo i
vostri nemici, noi non vi minacciamo: non vi presentiamo proposte inaccettabili
ed anche voi dovete fare così perché altrimenti noi saremo costretti a rispondere”.
In altri termini gli Stati Uniti sperano che “oggi o domani” la Corea del Nord
capisca e si disponga per un dialogo che abbia per obiettivo la soluzione
pacifica dell’attuale tensione.
Se non è un
capovolgimento della posizione Usa, si tratta probabilmente di un cambiamento
di linguaggio, che in fasi diplomatiche come questa è quasi l’equivalente. Che
cosa è cambiato in pochi giorni? Probabilmente le conclusioni di un
ripensamento strategico attribuibile al presidente in persona, metodo
tradizionale che non è della diplomazia ma rientra nelle inclinazioni e nelle
abitudini di Trump. Che nell’ultimo mese ha più volte denunciato il gravissimo
pericolo rappresentato dal regime di Kim Jong-un, ma adesso sembra rilanciare
la sua linea durante la campagna elettorale nei primi mesi della sua
presidenza. Trump si era detto pronto a recarsi personalmente nella Corea del
Nord per condurre un vertice. “Se fosse utile per me un incontro a quattr’occhi
con Kim lo farei senza esitare, anzi per me sarebbe un onore”. Non è mai stato
questo il linguaggio americano al dittatore nordcoreano, nel corso di un lungo
scambio di vedute, di minacce e di insulti. Quattro anni fa il giornale
ufficiale di Pyongyang uscì in prima pagina con una fotografia di Kim Jong-un
seduto davanti a un missile intercontinentale e una carta geografica che
indicava gli obiettivi possibili, fra cui Austin, capitale del Texas, Los
Angeles e Washington. Allora questa minaccia fu considerata poco più di uno
scherzo, dal momento che le possibilità nucleari nordcoreane erano molto più
modeste.
Adesso le cose
sono cambiate, un ordigno ha compiuto un percorso giudicato sufficiente per
colpire l’Alaska ed è stato annunciato che ormai la parte continentale degli
Stati Uniti è vulnerabile. Allora qualcuno rise, oggi molti prendono la
minaccia sul serio nella forma di un attacco nucleare preventivo da Pyongyang
che renderebbe impensabile un gesto similmente preventivo degli Stati Uniti,
che oggi sono protetti solamente dal Ground-Based Midcourse Defense System, un
sistema molto aggiornato per l’intercettazione dei missili a lungo raggio: il
miglior modo di proteggere gli Stati Uniti da un attacco nucleare.
Si è incrinato
qualcosa in questo Scudo? Qualcuno in America ha cambiato valutazione e
considera oggi la minaccia abbastanza grave da rendere necessaria una nuova,
più ampia valutazione militare e insieme diplomatica, che combina due
strategie. La prima è puramente preventiva e militare, cioè lanciare missili
per primi, mossa decisiva in vista della schiacciante superiorità degli Stati
Uniti. Ma tra gli scettici su questa alternativa ci sarebbe anche il ministro
della Difesa di Washington Jim Mattis, che dovrebbe sapere meglio di ogni altro
che un conflitto armato in presenza di armamenti nucleari sarebbe una catastrofe
per tutti. E includerebbe la morte di centinaia di migliaia di coreani, di
giapponesi che si trovano a metà strada e di americani. Non manca chi,
soprattutto nel Congresso, ritiene accettabile tutto questo altissimo prezzo,
ma non i militari e, a quanto pare, la Casa Bianca.