Alberto
Pasolini Zanelli
I terroristi che
hanno fatto strage a Barcellona hanno riacceso, volendolo o meno, un vecchio
fronte di una confusa “guerra” americana. Fra Corea, Iran, Russia e,
soprattutto, diatribe interne, sia la Casa Bianca di Donald Trump, sia i suoi
sempre più accaniti nemici interni si erano per almeno una settimana
“dimenticati” di cose come l’Isis, il suo parente e concorrente Al Qaida e, in
generale, il Medio Oriente, dedicando pochi minuti al giorno di una spiegazione
frettolosa del raffreddamento delle ostilità in quella regione del mondo. Il
“botto” in Spagna, così simile tecnicamente e strategicamente a quelli che
hanno colpito di recente altri Paesi europei ma soprattutto la Francia, ha
ridato vigore alla spiegazione da diverso tempo avanzata sull’apparente cambio
di strategia jihadista. L’Irak ma soprattutto la Siria, che per mesi e mesi, o
anche anni, è stato il focolaio della guerra nel mondo, hanno visto, o lasciato
vedere, una specie di armistizio a senso unico. Dopo la riconquista di Aleppo
da parte dall’esercito regolare siriano con appoggio russo e dopo una battaglia
di molti mesi, gli altri caposaldi sono scomparsi dalle cronache e sembrano
essersi dissolti. Tra le spiegazioni avanzate c’era quella appunto di un cambio
di strategia: il ritorno a quella del terrorismo all’estero dopo l’illusione di
far rinascere il Califfato. Qualcuno in Occidente si era illuso, altri avevano
espresso subito il timore che si passasse dalla padella alla brace, cioè alla
concentrazione degli sforzi del terrorismo fuori dall’area e soprattutto in
Europa.
Barcellona pare
ora avere confermato e al cambio di rotta di marca Isis si deve ora opporre un
mutamento della strategia antiterroristica, a cominciare dall’America. E qui le
cose si complicano perché a Washington in questo momento di strategie coerenti
se ne ascoltano ben poche, mentre sempre più forte è il rombo delle polemiche
interne. Trump ha reagito con una certa prontezza, trovando uno spazio nelle
sue continue polemiche e contropolemiche di natura interna. Ha ripreso in mano
il problema del terrorismo con parole di un certo rigore, magari esagerando
come è suo stile. Ha minacciato i jihadisti di fargli fare la fine dei
terroristi musulmani delle Filippine un secolo fa, cioè subito dopo la conquista
dell’arcipelago da parte degli americani con la vittoria di una guerra contro
la Spagna. I filippini scatenarono una guerriglia durata molti anni e piegata
solo alla vigilia della Prima guerra mondiale attraverso una repressione molto
dura che avrebbe avuto una pagina particolarmente “colorita” con l’uccisione
per ordine del generale americano Pershing di uccidere i ribelli con proiettili
irrorati con salame di maiale. Trump ha ricordato l’episodio quasi approvandolo
come esempio e monito. I suoi nemici interni lo hanno smentito, avanzando la
vecchia ipotesi che si trattasse di una leggenda. È realtà invece la durezza
della repressione, che all’epoca fu denunciata in un libro del grande scrittore
americano Mark Twain. La ritrovata centralità delle guerre islamiche ha un
significato in sé estraneo: restituisce attualità a quella che è stata per anni
la minaccia principale di fronte a una polemica interna che per giorni ha zittito
tutte le altre, compresa la minaccia dell’atomica nordcoreana. Della crisi in
Venezuela, delle dissonanze con l’Europa e dei complicati rapporti con la
Russia. Quasi di colpo le priorità erano cambiate. Dal colorito ultimatum di
Trump a Kim (la minaccia di “fuoco e tempesta”) si è passati alla fiducia in
una possibile soluzione diplomatica che potrebbe comprendere il ritiro delle
truppe americane dalla Corea del Sud. Non è stato Trump a introdurre la
variante, bensì degli esperti militari. Il presidente e i sempre più numerosi
nemici da cui egli è costretto a difendersi hanno cambiato priorità una volta
di più: contro la Casa Bianca c’è un fuoco concentrato, cui rispondono
contromisure spezzettate. Al fronte contro Trump, inizialmente guidato da
gruppi di pressione politica soprattutto da parte dell’opposizione democratica,
si stanno unendo sempre più in fretta altre forze, alcune delle quali
politicamente identificabili con il Partito repubblicano di cui il presidente
fa parte e dovrebbe essere il leader. Ogni qualche ora un nuovo senatore si
dichiara contro di lui. L’ultimo ha addirittura accusato Trump di essere
“instabile” (impressione indubbiamente comprensibile). Ci sono raffiche di
dimissioni e di dissensi nel mondo economico, di licenziamenti di consiglieri
finanziari, dure condanne da sinistra e da destra. Circola da qualche ora la
voce secondo cui il presidente deciderebbe o sarebbe costretto “entro un mese”
a dimettersi. Da Washington suonano trombe di ribellione, ma anche campane di
resistenza. E si riaprono problemi, minacce e fronti in tutto il resto del
mondo.