Politica industriale – L’innovazione unica possibilità per le imprese
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 21 agosto 2017
Mi
sono più volte chiesto come mai noi italiani, che non apparteniamo
certo all’ultimo dei paesi industriali, non siamo stati inventori né
siamo produttori di nessuno dei grandi prodotti di massa che hanno
rivoluzionato la nostra vita negli ultimi decenni. Mentre nella prima
generazione del dopoguerra siamo stati innovatori non solo negli scooter ma nei prototipi di computer e nelle più raffinate materie plastiche,
negli ultimi decenni siamo usciti dalla scena delle grandi innovazioni.
Non siamo stati protagonisti nei fax, non nelle fotocopiatrici, non nei
telefoni e nei computer portatili, non nelle lampade a led….. e
l’elenco potrebbe continuare.
Tutto questo in un contesto nel quale molte delle nostre imprese, a
partire dalla meccanica strumentale, sono state capaci di mantenere un
ruolo da protagoniste nella concorrenza internazionale attraverso
un’intelligente continuità di piccole innovazioni nel prodotto e nel
processo produttivo.
La risposta più ovvia, anche se assai preoccupante, è che, mancando di
grandi imprese, non possiamo certo essere protagonisti delle grandi
innovazioni. Questa risposta è ragionevole ma porta come conseguenza una progressiva assenza dell’Italia dai settori che non solo sono i più innovativi ma che manifesteranno in futuro una maggiore capacità di crescita.
Tradotto in termini semplici tutto questo, nel lungo periodo, comporterà la nostra uscita definitiva dal gruppo di coloro che, in modo determinante o semplicemente come ausiliari, guideranno lo sviluppo dell’industria mondiale.
Anche se sono ben cosciente del fatto che in Italia non abbiamo ormai
nessun protagonista tra i colossi industriali, ritengo che si possa
ancora elaborare una politica per portare le nostre imprese a giocare un ruolo attivo ed importante, anche se laterale, nel nuovo processo di innovazione.
Cercheremo ora di tradurre queste idee generali in un esempio concreto: il grande settore dell’industria automobilistica.
È ormai opinione comune che l’auto elettrica, oggi ancora marginale, sia destinata ad uno sviluppo imponente:
da poche centinaia di migliaia si passerà a 20 milioni di auto
elettriche fra solo tre anni, per triplicare poi nei cinque anni
successivi. Mi aspetto infatti che, da un momento all’altro, il sindaco
di Pechino o di Chongqing, dato il drammatico livello
di inquinamento delle metropoli cinesi, proibisca l’immatricolazione di
automobili a diesel o a benzina. E mi aspetto che questo sia l’inizio
di un processo a diffusione mondiale.
Anche nell’ipotesi che lo sviluppo dell’auto elettrica sia inferiore
alle impressionati previsioni di oggi è tuttavia certo che sta nascendo
un nuovo enorme settore
industriale nel quale noi italiani non possiamo essere protagonisti:
questo ruolo se lo giocano già gli americani ( Tesla e GM) e i cinesi,
mentre in Europa coloro che più investono in questa nuova direzione sono
la Volvo (di proprietà cinese) e i grandi produttori tedeschi.
L’Italia
non potrà essere quindi tra i leader dell’auto elettrica. Il nostro
paese è però un grande produttore di componenti, che dovranno
progressivamente adattarsi alle trasformazioni del settore. Si tratta di
componenti specializzati, che richiedono economie di scala nella
produzione e nella ricerca ma che sono alla portata delle nostre imprese
di componentistica.
Il problema in questi casi è agire subito, con un progetto capace di
legare le nostre aziende con le grandi case automobilistiche innovatrici
e, nello stesso tempo, con le nostre università e i nostri istituti di ricerca.
Occorre cioè apprestare un organico progetto di economia industriale
capace di seguire e partecipare al processo innovativo mondiale, pur in
un contesto così diverso da quello del primo dopoguerra.
In queste brevi considerazioni mi sono limitato all’auto elettrica ma
il problema è ben più vasto e tocca ad esempio le macchine per la
produzione in 3D, i nuovi materiali, le nanotecnologie e così via.
Questo nuovo che avanza ci obbliga a elaborare una strategia nazionale
che, approfittando anche dei contributi positivi del progetto 4.0,
possa permettere alle nostre piccole e medie imprese di partecipare, pur
nel limite delle loro dimensioni, ai processi innovativi in corso in
tutto il mondo.
Negli
ultimi anni abbiamo infatti perso continuamente quota nella produzione
industriale globale. Ciò è avvenuto soprattutto nei settori a bassa
tecnologia, come l’abbigliamento, le calzature e i mobili, in
conseguenza dell’arrivo dei nuovi concorrenti. È tuttavia necessario
tenere presente che essi stanno elevando il proprio livello tecnologico e
aumenteranno la capacità competitiva anche nei settori più raffinati.
Essendo senza giganti dobbiamo rafforzare i nostri produttori che, pur
modesti per dimensione, posseggono ancora grandi potenzialità nella loro
specifica nicchia di mercato. Dobbiamo cioè tenere conto del fatto che
la politica industriale deve costruire in anticipo un futuro coerente con le caratteristiche del proprio paese e non rassegnarsi ad essere vittima del progresso altrui.