Alberto
Pasolini Zanelli
Donald Trump continua
in quello che sembra e probabilmente è, un giro elettorale d’America. L’ultimo
discorso l’ha pronunciato in una delle sue roccaforti politiche, l’Arizona. E,
in Arizona, la capitale Phoenix, una delle roccaforti della destra americana. E
ha parlato forte come si immaginava, non del tutto a torto, che fosse il modo
più gradito agli spettatori. Ciononostante il successo è in grande parte
mancato. Nelle cose che l’uomo della Casa Bianca ha detto, promesso, presentato
come urgenti, alcune hanno trovato consenso anche se non entusiasmo; altre
hanno incitato ed eccitato i toni già semiapocalittici dell’opposizione.
Ma la
caratteristica fondamentale di questo ennesimo appello al Paese è che quello di
Phoenix è stato uno dei migliori discorsi elettorali di Trump, uno di quelli
che l’hanno portato alla Casa Bianca a sorpresa nel novembre scorso. Il
problema è che le elezioni sono passate, lui le ha vinte, ma è passata anche
l’epoca dei discorsi elettorali e delle promesse. Dai presidenti eletti già da
alcuni mesi l’America si attende anche bilanci consuntivi e non soltanto
promesse. Anche questa volta Trump ha messo in luce le sue qualità e i suoi difetti,
che, per quanto l’espressione sia un po’ originale, coincidono. Questo uomo
politico esordiente ha ancora la “carica”, la voglia e la ferma capacità di
proporre agli americani ogni volta nuovi problemi e, quando può, nuove
soluzioni; ma non sembra essersi accorto che la campagna elettorale è finita e
che il ruolo delle promesse si sta come sempre riducendo e, come quasi sempre,
si dovrebbe rafforzare il ruolo dei bilanci. Non certo di quelli definitivi, ma
abbastanza per dare fiducia al Paese e per consolidare il ruolo presidenziale.
Compito certo particolarmente difficile per Donald Trump, che si trova di
fronte alla più accanita opposizione dell’albo presidenziale americano,
compatta e senza tregua ancora più di quanto non sia stata l’opposizione dei
repubblicani nei quattro anni passati alla Casa Bianca da Obama. La differenza
è che l’ultimo presidente democratico si è difeso cercando di smorzare i toni,
senza grande successo, mentre il suo successore repubblicano risponde alzando
ulteriormente i toni della polemica e aggrappandosi all’arma che gli consentì
di arrivare alla Casa Bianca: tenere i toni sempre più alti e soprattutto di
fronte a una critica scomoda, non per difendere le posizioni prese di mira ma
cambiare discorso, affrontare un altro argomento; e certo non ne mancano nel
registro delle promesse, delle critiche e delle attese, senza perdersi nei
dettagli dell’argomento contestato. È una strategia ormai quasi quotidiana, che
l’accanimento delle opposizioni rende in parte obbligatorio ma soprattutto
corrisponde al carattere del capo dell’Esecutivo. Ogni discorso o è deve
apparire nuovo, anche in questo al contrario di Obama che continuava a
rispondere e contrattaccare sui singoli punti in discussione. Nelle ultime due
settimane Trump è riuscito a cambiare discorso ogni volta che parlava e ogni
volta rappresentare una nuova immagine dell’America e del mondo. Il centro
delle polemiche sono stati le porte chiuse all’immigrazione con il progetto di
un gigantesco muro per difendere l’America dall’invasione messicana, poi la
cancellazione di accordi commerciali internazionali, poi i rapporti con la
Russia, poi le guerre in Medio Oriente, poi le tensioni con l’Iran, poi il
grande allarme per la minaccia della Corea del Nord, poi i rapporti commerciali
e politici con la Cina.
Negli ultimi tempi
questi temi sono stati messi da parte o addirittura scomparsi. Da anni l’ansia
principale erano l’Isis e Al Qaida, la Siria e l’Irak, il dilagare del
terrorismo jihadista in Europa e anche sul territorio americano. Piccoli
spostamenti nella controffensiva contro la guerriglia jihadista, come le
riconquiste di Palmira e poi di Aleppo. L’ultimatum al dittatore nordcoreano
con la promessa di “fuoco e tempesta”. Di questi argomenti non si parla
improvvisamente quasi più e non soltanto nei caffè delle chiacchiere, ma dalle
tribune e dai microfoni della Casa Bianca. L’argomento centrale adesso è
ridiventato il Pakistan, cioè il terreno geografico in cui l’America è
impegnata in una guerra da sedici anni, alternando bollettini di vittoria e
segnali di allarme, mandando rinforzi e ritirandoli. L’obiettivo iniziale era
la distruzione o la cacciata di Bin Laden e dei suoi che il potere talebano a
Kabul proteggeva, poi la prosecuzione della guerra per liberare l’Afghanistan
dai talebani, obiettivo che parve raggiunto. Poi la realistica e sconsolata
valutazione di Obama e il conseguente ritiro delle forze americane.
Adesso, mentre non
si parla quasi più con urgenza di tutti gli altri punti arroventati del
pianeta, l’Afghanistan ritorna in primissimo piano. Ci si accorge che è un
rifugio per i talebani, ma che sta vivendo un loro ritorno al potere. Ma adesso
le truppe Usa hanno ricevuto l’ordine contrario: tornare a Kabul a caccia dei
cervelli della sovversione, proprio come sedici anni fa. E in più arroventare i
rapporti con il vicino Pakistan, accusato a sua volta di ospitare terroristi.
Neanche questa è una novità: ci abitava Bin Laden ed è laggiù che gli americani
lo hanno scovato e ucciso. Il Pakistan notoriamente fa il doppiogioco. La sua
preoccupazione capitale sono i rapporti con l’India, nemico storico. Trump
adesso enumera fra gli obiettivi del suo quadriennio alla Casa Bianca un
riallineamento fra indiani e pachistani. Un programma ampio e, se non proprio
nuovo, almeno fresco. Ma gli americani in questo momento hanno altre angosce.
Rischiano di convincersi che, in casa loro e non nel Medio Oriente, possa
risorgere il fantasma del nazismo.
Pasolini.zanelli@gmail.com