Cina: scienza e tecnologia obiettivo primario. Ma sotto controllo politico
Equilibri pericolosi – Se in Cina il governo detta la linea alla scienza
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 5 novembre 2017
Il Presidente Xi Jinping, in occasione del 19ºCongresso del Partito Comunista, ha tracciato le linee della politica cinese per il prossimo quinquennio, ed anche oltre.
Prima di tutto ha ribadito che la crescita proseguirà e che l’economia cinese non solo si appresta a diventare leader mondiale in termini quantitativi ma avrà il primato nella protezione dell’ambiente e opererà con energia per diminuire le inaccettabili differenze di reddito oggi esistenti.
Fin qui si tratta di messaggi già previsti. Sorprendente è invece l’enfasi sul ruolo della scienza e della tecnologia, campi nei quali l’obiettivo esplicito è quello di raggiungere il primato mondiale in settori della massima importanza, dall’auto elettrica ai “big data”.
Una politica che, naturalmente, sarà accompagnata da un cambiamento radicale della struttura produttiva. Tutto questo fondato su progetti giganteschi, come il poderoso sviluppo dell’informatica che fa di Shenzen l’unico possibile concorrente alla Silicon Valley per livello tecnico e per dimensione. E come un nuovo progetto, già in corso di realizzazione, di un immenso parco scientifico a nord di Nanchino (Jiangbei-Xinqu) che accoglierà un milione di persone attorno ad un’iniziativa proiettata a dare vita solo a prodotti di assoluta eccellenza.
Al di là di questi grandiosi disegni colpisce tuttavia la esplicita dichiarazione che scienza e tecnologia sono obiettivo primario di tutta la Cina ma che debbono essere strettamente e rigorosamente guidate dal Governo e, quindi, dal Partito. Scienza e tecnologia lasciate a se stesse produrrebbero solo conseguenze negative.
Questa politica allargherà la già presente dialettica fra la Cina ed il mondo occidentale riguardo ai rapporti fra scienza e potere e ai possibili danni di un orientamento scientifico affidato soprattutto alle forze del mercato.
Un altro elemento su cui occorre meditare profondamente emerge dal concetto di globalizzazione espresso dal Congresso: la Cina accetta e promuove la globalizzazione economica ma si oppone a ogni processo di globalizzazione politica. Pechino esprime cioè un’assoluta contrarietà all’adozione di valori universali proposti e imposti da altri paesi.
In parole più semplici la Cina rifiuta la pretesa dell’Occidente democratico di definire quello che è bene e quello che è male o, per essere ancora più espliciti, essa si ritiene legittimata, almeno come l’Occidente, a definire quello che è bene e quello che è male. Ogni paese dovrebbe infatti avere il diritto di scegliere i suoi punti di riferimento politici e ideali in accordo con la propria tradizione e in coerenza con i propri interessi. Tesi rafforzata dalla consapevolezza del progressivo mutamento dei rapporti di forza, per cui le democrazie liberali non sono ritenute più in grado di imporre i loro valori né con le armi né con la persuasione.
Il processo democratico fondato su elezioni aperte alla generalità dei cittadini viene valutato da Pechino come uno dei tanti strumenti di organizzazione di una società: i processi politici debbono cioè derivare solo dalle proprie caratteristiche interne e non possono essere il frutto di imposizioni esterne.
La Cina continuerà quindi ad avere rapporti con tutti a seconda delle sue convenienze e senza assolutamente curarsi del regime dei paesi con cui tratta. Mi sembra quindi che, in questi ultimi mesi, siamo ormai entrati in una nuova fase storica che potremmo definire come “globalismo economico senza universalismo politico”. Questa dottrina è già stata adottata dalla Cina in Africa, dove essa costruisce rapporti con tutti i paesi indipendentemente dalla loro forma di governo. Una politica resa ancora più esplicita col riavvicinamento alle Filippine, dove l’autoritarismo del presidente Duterte rende invece prudenti i paesi democratici. Questa politica cinese non è quindi nuova ma esce rafforzata e resa più esplicita dall’esito del 19ºCongresso che, sostanzialmente, prende atto del cambiamento dei rapporti di forza fra la Cina e il resto del mondo.
Tale politica, investendo sul rispetto degli Stati esistenti, potrebbe essere indifferente, se non addirittura ostile, alla crescita dell’unità politica dell’Europa. In questo contesto preoccupa in particolare la decisione da parte cinese di costruire rapporti speciali con i paesi europei più problematici nei confronti dell’Unione e, soprattutto, preoccupa l’atteggiamento particolarmente caloroso nei confronti del primo ministro ungherese che, negli ultimi tempi, si è dedicato ad indebolire i propri legami con l’Unione Europea.
Credo invece che un intenso e positivo rapporto fra Cina e Unione Europea sia di importanza fondamentale per la pace e la prosperità del pianeta e penso che una dottrina di rispettosa non interferenza valga non solo per i rapporti con i singoli paesi ma anche nei confronti delle strutture comunitarie che i diversi paesi hanno tra di loro costruito.
Da queste semplici riflessioni emerge in ogni caso l’evidenza di come il crescente e così diverso protagonismo cinese richieda una nuova consapevolezza e un serio approfondimento delle differenze politiche e culturali che stanno alla base dei nostri rapporti. I buoni rapporti si costruiscono infatti non con una forzata omogeneizzazione ma con un costruttivo riconoscimento e un conseguente rispetto delle diversità.