Alberto
Pasolini Zanelli
Il resto del mondo
si sta accorgendo in fretta che l’eclisse dell’Isis non è il segnale di una
ondata di pace o almeno di una pausa della guerra nel Medio Oriente. Le
organizzazioni ufficiali dei terroristi islamici sono solo andate a cambiarsi,
cioè a rinnovare il quadro delle ostilità e dei progetti di guerra, offensiva o
difensiva, con una specie di torbida eguaglianza per le prospettive della
grande maggioranza dei Paesi laggiù collocati e con le conseguenze inevitabili
per il resto del pianeta, a cominciare dall’Occidente. Di buone notizie non se
ne vedono in giro e le previsioni più complicate sono per gli Stati Uniti. E lo
sarebbero anche se alla Casa Bianca non risiedesse da un anno un presidente
inquieto e forse inquietante come Donald Trump. Che è probabilmente troppo
impegnato nel portare avanti i suoi progetti che sono tutti in ritardo,
nonostante la sua fretta. Si guarda attorno e dovrebbe riconoscere ed elencare
i punti più pericolosi. Non è detto che lo faccia perché la sua principale
arma, non segreta, è quel particolare tipo di ottimismo che egli ritiene
dovrebbe bastare a mantenere il ruolo di superpotenza e a intimidire i nemici o
gli amici che sono tentati di sollecitare in qualche forma un divorzio. Più lui
ne parla più, almeno in questa fase, le tensioni crescono, bilaterali e no. Più
vistosamente in Iran, che evidentemente è considerato dal governo di Washington
il nemico numero uno.
Lo si vede fra
l’altro nelle sue piazze, che si stanno riempiendo di nuovo degli estremisti o
almeno di coloro che si ritengono minacciati e provano a rispondere per le
rime. Ci si sta dimenticando che è ancora recente la vittoria elettorale del
moderano Rohani e della sua disponibilità a trattare, soprattutto con l’America
di Barack Obama, carica di buone intenzioni e anche di qualche illusione. Ed è
soprattutto a Washington che cresce la volontà o almeno la tentazione di
cancellare quel trattato frutto della pazienza e dell’abilità di John Kerry e
che l’attuale inquilino della Casa Bianca e i suoi sostenitori definiscono “il
peggiore mai stipulato nella storia” e proclama la sua volontà di stracciarlo.
Il resto del mondo non è d’accordo, ma è lui che comanda, almeno nel senso
negativo del termine.
Il regime di
Teheran replica elencando le novità che più l’allarmano, che non sono solo le
minacce presidenziali, ma anche l’evidente coordinamento fra le possibilità
degli Stati Uniti e le crescenti ambizioni dell’Arabia Saudita, antico rivale
dell’Iran e in questa fase più intransigente ed aggressiva. La risposta è che
le piazze di Teheran non sono mai state così piene di dimostranti tanto
arrabbiati e fiduciosi della loro causa.
Ma l’Iran non è
solo: la reciproca diffidenza cresce anche in Turchia, che a differenza del Paese
degli ayatollah è tradizionalmente alleato dell’America o almeno è stato fino
alla svolta autoritaria di Erdogan. Si producono anche incidenti come quelli
dell’arresto e detenzione negli Stati Uniti di un uomo più potente che noto al
resto del mondo, Reza Zarrab, accusato di traffici illegali in oro. A
differenza dell’Iran la Turchia è stata alleata o almeno sodale di Washington
durante la lunga guerra della Siria. Ci ha mandato dei soldati anche se non
dediti alla fallita strategia di espulsione di Assad dal potere a Damasco.
Quello che i turchi cercavano, almeno in parte con successo, è stato fermare i
jihadisti, ma con due importanti eccezioni: salvare un vecchio e secolare
nemico e riproporre con più urgenza negli ultimi cento anni: la questione
curda, la nazione senza Stato, delusa nelle promesse della prima guerra
mondiale. Sul campo i curdi hanno avuto forse i maggiori successi, ma frutto di
alleanze variabili e contraddittorie, con il risultato che i vecchi ribelli,
sparsi in tutto il mondo islamico, hanno sfidato apertamente il boccheggiante
Irak, ma non hanno rinunciato al resto delle loro rivendicazioni in altri
Paesi, dalla Turchia all’Iran. Trump li ha appoggiati decisamente, ma adesso
pare pentirsene, al punto che avrebbe deciso di mettere fine alle forniture di
armi alle milizie curde.
Ma il vincitore
forse più netto anche se di minori dimensioni non è stato un popolo ma una
milizia a sfondo più religioso e culturale che etnico: una organizzazione,
Hezbollah, che opera soprattutto nel Libano (preoccupando Israele), ma che è il
braccio armato della fazione sciita e quindi appoggiato robustamente dall’Iran.
Sciiti contro sunniti, ma anche non arabi contro arabi, contro diversi Paesi di
quella “civiltà”. A Beirut gli Hezbollah stanno per diventare dominanti. A loro
ha finito col dire “sì” anche il primo ministro libanese, Saad Hariri, di cui i
sauditi hanno imposto le dimissioni, con il risultato invece di farsi dire “no”
e dunque rafforzarlo. Aggiungendo così un altro campo di battaglia agli
americani e ancor più ai sauditi, le cui ambizioni sono crescenti ma che paiono
destinati ad incontrare ulteriore resistenza dopo le battaglie dirette o
indirette in Siria. E la indiretta sconfitta.