Alberto Pasolini Zanelli
Robert Mugabe salì ufficialmente al
potere avvolto in una nuvola di gas lacrimogeni. A lanciarli non erano bianchi
reazionari ma africani entusiasti e assieme frustrati. La cerimonia di
fondazione dell’indipendenza, della morte della Rhodesia e della nascita dello
Zimbabwe fu sancita a mezzanotte in punto del 18 aprile 1980. La cerimonia si
svolse in uno stadio calcistico rivelatosi però insufficiente. La tribuna
d’onore era piena, i gradini popolari vuoti e presidiati dalla polizia che per
prevenire disordini riempì di gas gli accessi. Però il vento girò dalla parte
opposta e a piangere fummo noi, spettatori privilegiati. Le forze dell’ordine
erano ancora agli ordini degli inglesi, perché l’indipendenza sarebbe scoccata
alla mezzanotte, ma la gestione dello stadio era precedente. Allo stesso
secondo si alzò una bandiera, risuonò un inno, il Paese cambiò nome, da
Rhodesia a Zimbabwe e così la sua capitale, da Salisbury ad Harare. Cambiarono
anche i poliziotti e l’atmosfera dell’indipendenza a poco a poco si purificò.
Questa storiella è storicamente
minima, ma sostanzialmente riflette la storia di questa colonia, fra le più
pacifiche fino alle vibrazioni degli ultimi anni e fra le più prospere dell’ora
defunto Impero Britannico. Le notizie più brusche giunsero dalla lotta per
l’indipendenza, che fu però moderata nei toni. Quelli più severi vennero
dall’Onu e dalle grandi potenze. Finì così con un accordo diplomatico, simile
in molti aspetti alla cerimonia di qualche anno dopo per la restituzione di
Hong Kong dalla Cina al Regno Unito. Con l’eccezione dei gas. L’atmosfera era
dominata da due tipi di ottimismo: l’esultanza dei colonizzati (sintetizzata da
Mugabe con una frase, “Lo Zimbabwe non sarà mai più una colonia”) e quella dei
bianchi, padroni di quasi tutta la terra di un Paese agricolo e prospero.
Ricordo un volo della vigilia, pieno di signore felici e rilassate: cadeva
l’impero britannico ma scadevano anche le sanzioni internazionali. Il buon
umore e l’ottimismo regnavano anche nei caffè all’aperto in attesa della
mezzanotte. Alcuni bianchi avevano addirittura voglia di scherzare: un mio
vicino aveva appoggiato sul tavolo una frusta additandola al cameriere e
spiegandogli che da domani il padrone sarebbe stato lui ma che fino a mezzanotte
quello era il simbolo giusto del potere bianco.
Cominciò così il percorso di potere
di Robert Mugabe, che fino a poche ore fa era il più anziano capo di Stato o di
governo del mondo. Ricoprì tutte le cariche esistenti o concepibili: sette anni
primo ministro e trenta presidente della Repubblica e da tre il più anziano
capo di Stato o di governo del mondo. Non tutti pacifici, contrassegnati dall’emergere
alterno di oppositori, bianchi ma soprattutto neri. I primi cercarono di
difendere il proprio privilegio agricolo che sanciva il monopolio degli europei
sulle aziende agricole e su alcune attività commerciali. Ci vollero degli anni
per convincerli a rinunciare. Nel frattempo si erano sviluppate le
contestazioni degli indigeni, in buona parte accolti ma non senza forti
tensioni etniche. La gestione dell’economia è stata tutt’altro che esemplare.
Anche a causa di lunghi anni di sanzioni internazionali il reddito medio di
quella che era stata la “ricca” Rhodesia si dimezzò, anche a causa di quelle
sanzioni. Mugabe reagì in modo prevalentemente energico ma contrassegnato da
incoerenze. Che in fondo riflettevano non solo una “linea” incerta, ma anche la
complessità della formazione culturale e ideologica di Mugabe. È stato forse il
più colto fra i leader della decolonizzazione. Iscritto al Partito comunista,
continuò ad esibirsi come cattolico, a cominciare dagli studi compiuti in un
seminario di gesuiti. Quando gli Stati “bianchi” lo escludevano da ogni
iniziativa internazionale (dall’esclusione dello Zimbabwe dal Commonwealth
britannico alla designazione di “persona non gradita” e quindi con il divieto
di mettere piede in Europa) la Chiesa di Roma gli dava il benvenuto e lui si
recava a rendere omaggio o salutare tutti i Papi, l’uno dopo l’altro. Pare che
le sue relazioni con Francesco siano state particolarmente cordiali.
L’ultima riforma fu battezzata
Murabatsvina (“spazza via l’immondizia”), drastica ripulita delle baraccopoli
intorno alle grandi città: centomila abitazioni e settecentomila abitanti
furono eliminati e tanta gente rimase a piedi e reagì con ondate di scioperi.
Almeno fino a un certo punto Mugabe li ignorò. Stava ricostruendo, fra
l’altro, la sua famiglia. Rimasto vedovo della prima moglie, se ne procurò
un’altra, destinata a sostituirlo il giorno del suo decesso con funzioni
definite “da regina”.
È per prevenire questo che lo Stato
maggiore ha mosso i carri armati. Mugabe e signora sono adesso, ufficialmente,
“al sicuro”. In realtà sono stati arrestati. Il mondo delle grandi potenze si
sfrega in silenzio le mani. Incoraggia i golpisti in uniforme, conta su una
normalizzazione, spera che non si ritorni alle dottrine marxiste. E che ai
funerali di Mugabe non ci sia tanto entusiasmo da dover ricaricare i carri
armati con ondate di gas lacrimogeni.