Alberto Pasolini Zanelli
È durato più di due ore il
primissimo atto della campagna elettorale americana, destinata a concludersi il
primo martedì di novembre del 2020. I primi candidati si sono mossi con il
solito anticipo, ma secondo una formuletta aggiuntiva: lo scontro iniziale non
è stato fra repubblicani e democratici, bensì fra democratici. Una necessità
dovuta al numero record e probabilmente eccessivo degli aspiranti al ruolo di
sfidante contro Donald Trump. Ventuno, quasi due squadre di calcio. Tanti da
doversi dividere: una decina per ogni serata, sul campo della Florida, uno
Stato abituato a decidere l’esito della finale. Dieci una sera, altri undici l’indomani,
senza dei veri favoriti. Ce ne sarebbe per la presidenza uno che è già stato
per otto anni vicepresidente, Joe Biden, numero due di Obama. Lo danno per favorito
con una certa generosità quasi solo per questo e poi perché è una persona
perbene, privo se non di difetti, almeno di sospetti. I suoi difetti sono
debolezze. I numeri due si trasformano di rado in numeri uno e Biden ha al suo
attivo l’esperienza di una persona dabbene che mai ha dato adito a sospetti,
anche nei turbini delle campagne elettorali. È un padre di famiglia esemplare, pacato
nelle polemiche, un po’ troppo e la sua esperienza non è sovraccarica di idee. Un
suo difetto è l’esilità delle colpe e perfino delle gaffe e la correttezza del
linguaggio, di fronte a un presidente uscente che si lascia andare spesso e
volentieri a parole e gesti che una volta si chiamavano da osteria. Ma il vero
difetto di Joe Biden è che l’esperienza gli viene dall’età: se gareggerà e
vincerà, solo Reagan sarà stato un presidente più vecchio di lui.
Ma Biden, appunto, non è Reagan e
non è neanche Trump, così discusso ma così svelto e aggressivo, che i
democratici hanno non solo il desiderio ma il dovere di espellere dalla Casa
Bianca. Per questo si concedono una selezione anticipata e generosa: ventuno
candidati contro uno, affidando a una serie di confronti la ricerca del più
forte. Sono tanti che si è dovuto dimezzarli per ciascuna delle due “partite”
iniziali. Biden nella prima non c’era e neppure il suo concorrente
ideologicamente più distante, Bernie Sanders. C’erano però diversi personaggi
di rilievo che l’occasione ha costretto a gareggiare diluendo in una certa
misura l’offensiva contro l’avversario. Hanno dunque mostrato una più ristretta
varietà ideologica: hanno spostato quasi tutti a sinistra il programma e il
lessico del Partito democratico. C’è fra loro un Biden ma non c’è un Obama. Ciò
dipende anche dalla tensione non solo ideologica fra le due forze politiche
americane che per quest’altro anno saranno molto meno moderate. È stato Trump a
cominciare, mobilitando l’estrema destra e adesso i suoi avversari
risveglieranno e mobiliteranno l’estrema sinistra. Lo comanda l’atmosfera
polemica, resa ancora più aspra dal numero degli aspiranti alla sfida ma anche
dalle occasioni delle ultime settimane e giorni.
Dalla cupola di questa prima arena si
calano risentimenti, indignazioni e immagini che scuotono. L’ultimo è quello della
bambina affogata insieme al padre cui si stringeva nel tentativo di
attraversare a nuoto il confine fra il Messico e gli Stati Uniti per emigrare
senza permesso attraverso un “muro” che non è soltanto di pietra ed è da poco
in costruzione. È quasi irresistibile l’emozione di quella immagine, che
accentua il dolore e una polemica che non si limita al problema dell’immigrazione
ma sembra dipingere un atteggiamento umano dell’attuale presidente. E ce ne
sono altre non direttamente visibili ma altrettanto eloquenti: quella dei
soldati Usa che da un giorno all’altro potrebbero trovarsi coinvolti in una guerra
che la maggior parte degli americani ritiene non necessaria ma che può in ogni
momento scaturire da un’ennesima esplosione di ostilità nello scambio continuo
di ultimatum. Le provocazioni iraniane suscitano in un uomo come Trump l’istinto
della rappresaglia immediata e invece rinviata l’ultima volta ad appena dieci
minuti dall’apertura del fuoco, temporaneamente sostituita dalla cancellazione
di un trattato firmato dai due contendenti ma anche dalle altre potenze della Terra.
Questo argomento non è stato
dominante nel primo round fra gli aspiranti candidati democratici. I più, quasi
tutti, hanno parlato soprattutto di economia, martellando non soltanto Trump ma
l’intero Partito repubblicano e ancora di più le tradizioni dell’economia
americana. L’uno dopo l’altro hanno chiesto aumenti anche imponenti delle tasse
ai ceti più ricchi, nazionalizzazioni e statizzazioni di molte funzioni della
società, dalla gestione della salute e delle malattie al capovolgimento del
bilancio dell’istruzione da privato a pubblico, a un aumento generalizzato
degli stipendi. E sì, a una ricerca del compromesso in campo internazionale. Non
se ne è parlato molto ma in termini recisi: prima di tutti la senatrice Warren,
addirittura scavalcata però da due candidati su questo inattesi: una giovane deputata
delle Hawai e il sindaco italoamericano di New York, de Blasio, che si è confermato
così il vero leader della sinistra in America.