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L'Americano e l'Europa


Alberto Pasolini Zanelli

Il residente della Casa Bianca sta battendo, molto concretamente, il record inaugurato due secoli fa dalla fantasia di Jules Verne: un Giro del Mondo in molto meno tempo degli ottanta giorni. Proveniente dall’Estremo Oriente, si è fermato un attimo a Londra per ossequiare la regina e per cercare di capirci qualcosa nel surreale caos politico che tormenta il Paese che una volta si meritava il nome di Regno Unito. Abituato com’è a parlare solo lui e con voce tonante, a Londra ha dovuto cercare di ascoltare e capire i tanti protagonisti di una crisi senza precedenti locali e difficilmente decifrabili e convulsi. La crisi ha da tempo un nome accorciato, Brexit. E una schiera di protagonisti che si danno il cambio a un ritmo di ore se non di minuti. Sappiamo tutti a che cosa gli “inglesi” sono fortemente indecisi. L’Americano dichiara di avere le idee chiare e si è confrontato con quelle convulse, divise ed esauste dei politici locali, che si stanno lacerando fra le grinfie del divorzio dal resto dell’Europa, con una decisione rigorosamente contraddittoria ogni paio di mesi, da Paese abitualmente bipartitico a culla di formazioni politiche che appena nate vincono e poi si danno il cambio. Al punto che stanno rimanendo senza leader, con una signora premier dimissionaria e tanta nostalgia in giro per la sua grande sorella defunta e che mostrano ormai la sua sconsolata indecisione.

Che consigli le ha dato Donald Trump, maschio americano abituato ad esibire le proprie sicurezze e costretto a contemplare lo smarrimento dell’alleato più lontano, sicuro e intrepido da quando esistono gli Stati Uniti. La vecchia Britannia aveva abituato non lui ma tutti noi ad essere la riserva di deciso buon senso in Europa. Adesso che, nei giorni dispari ma non in quelli pari, sembra avere deciso di dare l’addio al Continente, senza lasciare un successore. L’alternativa è abitualmente la Germania, che in questi giorni sembra avere imparato le vertiginose abitudini della Brexit: Angela Merkel ha copiato Theresa May e la sua obbligatoria arte di governare in attesa delle preannunciate dimissioni, inseguendola anche come esempio ai propri collaboratori: è di ieri l’altro l’addio del leader del partito di coalizione a Berlino, paurosamente sconfitto nelle elezioni europee. La Merkel, oltre a tutto, è la prima responsabile del caos politico britannico (e non solo) per alcune delle regole che ha imposto all’Europa “unita”. Proprio lei che semmai assomiglia a Trump nell’energia ostinata e nel potere necessario per imporre le regole ai più fragili soci. Trump ha una consolazione in più: può minacciare la costruzione di muri contro gli immigrati e, non riuscendovi, a caricare i loro Paesi di sempre nuove tariffe sulle importazioni. Compresi quelli dell’Estremo Oriente, sua penultima tappa con almeno cinque interlocutori: la Cina che ha ormai sostituito la Russia come rivale dell’America per il primato planetario e che è in grado di martellare gli Usa di misure economiche, le due Coree, la vecchia alleata del Sud che di Trump ha soprattutto paura e la vecchia nemica del Nord, che ci gioca su un tavolo verde in cui le poste sono nucleari, dalle vecchie bombe della Guerra Fredda a quelle in costruzione e già puntate di dimensioni variabili e strategie apparentemente contraddittorie. Dietro una tenda il Giappone, da settant’anni alleato dell’America e minacciato bersaglio delle ambizioni atomiche nordcoreane. A Tokio come a Seul il presidente Usa ha dovuto ripetere promesse e offrire “premi” materiali e finanziari per far digerire le paure; quasi quanto ha dovuto ripeterle a quelli di Taiwan, il residuo della vecchia Cina fragile e messianica della rivoluzione mondiale. Un Giro del Mondo che è una corsa a ostacoli, non solo nelle capitali straniere, ma anche durante i lunghi voli, con i collaboratori nella gestione della Superpotenza americana. Sul come difendersi in modo nuovo con i vecchi nemici di Mosca ora accusati di “interferire” nella politica interna americana, manipolando le urne e cercando di fare eleggere un presidente più “comodo”. Potrebbe essere un’illusione ma più probabilmente è una pedina di fantasia dell’opposizione americana che ha bisogno di evocare vecchi nemici. O di crearsene dei nuovi, come è il caso dell’Iran, che spesso pare al centro del pianeta agli occhi di questo presidente, che a quelli di Teheran invia più che raccomandazioni, minacce, ultimatum militari. Magari un po’ attenuati nelle ultime ore, cui gli Stati uniti hanno fatto presente (questa volta attraverso la Svizzera) di non avanzare al momento “precondizioni” ma suggerimenti per uno scambio di mosse rassicuranti. Lo ha indicato Trump, lo ha affermato il Segretario di Stato Mike Pompeo, noto per il suo linguaggio “forte”. Suscitando così l’ira del “superfalco” di Washington, di John Bolton, statua baffuta e bellicosa.