Alberto Pasolini Zanelli
Donald Trump gioca d’anticipo. È una
sua abitudine, che delle volte gli giova e delle volte no, ma è nelle sue
abitudini e soprattutto nella sua esperienza del 2016, che lo ha visto partire a
freccia quando nessuno se lo aspettava e vincere quando ancora i più non se lo
aspettavano. Inoltre le campagne elettorali americane sono sempre delle maratone
che per la loro “distanza” farebbero rabbrividire i tradizionalisti come i britannici
che sbrigano tutto in due settimane. Anche i democratici hanno fretta:
inizieranno entro un paio di giorni la loro maratona, che quest’anno si
presenta particolarmente sfibrante perché fino a questo momento si sono già
presentati ventitré aspiranti alla Casa Bianca e dunque alla nomination del loro
partito. È un record che ha indotto i dirigenti a organizzare una specie di
torneo a eliminatorie tipo Wimbledon che consiste nell’eliminare più in fretta
che si può i più improbabili. Trump detiene un altro record, quello opposto:
non ha, almeno finora, l’ombra di un rivale nel Partito repubblicano. È salito
dunque sul palco di una grossa città della Florida e, invece di affrontare uno
per uno la folla di contestatori, li ha ignorati tutti tranne uno: che però è
Hillary Clinton, candidata sì, ma tre anni fa, è stata sconfitta quando era
ultrafavorita e ha perduto i suoi numerosi punti di appoggio e di potere in campo
democratico.
Trump ha fatto una specie di
riassunto non solo fra i difetti dei progetti nell’opposizione, ma soprattutto
sul programma con cui Hillary aveva conquistato tutto il capo democratico,
attribuendole non del tutto a torto tutte le colpe e i difetti dei suoi
colleghi. “Ha passato in rassegna tutti i difetti e gli sbagli dei suoi avversari,
ma chiamandoli tutti con il nome e cognome della “grande assente”. La struttura
del suo discorso è stata semplice e audace: cosa vi promettevo io tre anni fa e
cosa vi prometteva lei. Io ho vinto e voi tutti sapete che i miei programmi
sono riusciti perché erano giusti. Soprattutto in politica economica, sociale,
commerciale e più generalmente di costume. Trump ha scivolato invece sulla
politica estera e militare (due aree che negli Stati Uniti si congiungono) fra
l’altro per un motivo: nella campagna elettorale del 2016 la Clinton era od
appariva il “falco”, l’erede della Guerra Fredda desiderosa di continuarla o
riviverla, soprattutto nei rapporti con la Russia, che Reagan e Gorbaciov
avevano in buona parte raggiustato e fatto scendere una tensione di mezzo secolo
fra le due Superpotenze. I discorsi di Hillary, soprattutto quelli elettorali,
avevano irritato e soprattutto allarmato i dirigenti di Mosca, inducendoli a
fare il tifo per il suo avversario Trump, a quanto pare anche con qualche
piccolo aiuto la cui portata è sempre più esagerata dall’opposizione che la presenta
addirittura come principale argomento per cacciare Trump dalla Casa Bianca. Cioè
impedirne la rielezione senza ricorrere, come elementi più estremi, sbattere l’attuale
presidente sul terreno di un’inchiesta radicale come l’impeachment.
A opporsi sono i moderati, prima
fra tutti la presidente della Camera Nancy Pelosi, per scetticismo maturato con
l’età e coscienza patriottica. Numerosi magistrati hanno prodotto volumi
estremamente voluminosi, pieni di dettagli e domande ma esili come risposte. È dovuto
intervenire perfino Putin a negare tutto. Può avere esagerato anche lui, ma nessuno
è riuscito a dimostrare una “congiura segreta” fra Washington e Mosca. Trump comunque
non ha dimenticato e non ha perdonato e adesso fustiga Hillary non soltanto su
questo tema ma come fonte di una strategia “piena di calunnie”. La piazza gli
ha riservato, come si è detto, un plauso trionfale, probabilmente per motivi
anche separabili dal fantasma Clinton, che però è servito a riscaldare fin dall’inizio
l’atmosfera. Adesso si cominciano a fare i conti per il novembre 2020. Le elezioni
americane sono fatte così. Sono usciti i primi sondaggi, ventitré test che
mettono a confronto la voglia degli americani di confermare Trump o di cambiarlo.
I dati di alcuni sfidanti potrebbero preoccupare l’inquilino della Casa Bianca,
soprattutto quelli del preferito Joe Biden, aiutato ma anche danneggiato dall’assimilazione
con Barack Obama. Lo tiene indietro invece la sua personalità piuttosto grigia.
Più brillanti e aggressivi sono i suoi due rivali principali: Bernie Sanders,
senatore del Vermont ed Elizabeth Warren, del Massachusetts, più agguerrita e
soprattutto donna, che potrebbe cavalcare la grossa ondata femminista di questi
ultimi anni. Le cifre dei sondaggi li danno entrambi in vantaggio su Trump di
una manciata di punti percentuali, mediamente sul 50 per cento mentre Trump pare
ancorato sul 45 per cento. Ma sono conti che non danno certezze, soprattutto
per l’immediato precedente: nel 2016 Hillary Clinton raccolse il 50 per cento
dei suffragi e Donald Trump il 47 per cento. E ciononostante, in conseguenza
della legge elettorale Usa, fu lui a diventare presidente.