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"Il debito non sempre semina distruzione"


Financial Times
"Il debito non sempre semina distruzione" (e viva la spesa pubblica, purché giusta). Parola della super, super, super economista del Fondo monetario




(Gianluca Mercuri) 

Gran parte della pubblicistica italiana deve avere problemi di ricezione su computer e cellulari. Non arrivano, evidentemente, i rapporti e gli articoli della stampa internazionale sulla svolta del Fondo monetario internazionale, visto che da noi continua a imperversare la lagna sullo Stato interventista, il ritorno del grande Moloch che impedirà alle forze del capitalismo italiano di dispiegarsi in tutta la loro energia (un'energia descritta bene poche settimane fa dall’Economist). Per fortuna c'è il Financial Times che, per obbligo specialistico e accuratezza deontologica, di questa svolta non si perde una virgola, la spiega, la racconta. Un mese fa abbiamo ripreso, con la dovuta enfasi, le raccomandazioni del Fiscal Monitor, il rapporto in cui il Fondo mostrava di avere recepito la lezione del 2008-2012 e, di fronte alla tragedia mondiale della pandemia e alla concomitante crisi climatica, predicava investimenti pubblici e verdi, ridimensionava il mostro del debito pubblico e arrivava a consigliare lockdown tempestivi e rigidi, perché - spiegava - non ci sono riaperture che tengano se la gente ha paura di uscire.

Tutto questo ora è ricapitolato perfettamente da Gita Gopinath, chief economist del Fondo, in una lunga intervista a Martin Sandbu, firma d'eccellenza del giornale inglese. Indiana naturalizzata americana, 48 anni, curriculum formidabile, scelta da Christine Lagarde e ora al fianco della direttrice del Fondo Kristalina Gheorghieva, Gopinath è la conferma che in questo momento drammatico il mondo prende la direzione giusta se, dove e quando comandano le donne. Vediamo cosa ha detto, in una sintesi necessariamente lunghetta (ossimoro deliberato).

Dopo le banche centrali tocca agli Stati. In termini di politica monetaria è stato fatto tutto il possibile: «Scelte di allentamento, acquisti massicci di titoli di Stato, infusioni di liquidità sono stati essenziali per prevenire la catastrofe finanziaria». Ma se la crisi peggiora, «dobbiamo entrare in un mondo in cui abbiamo più posti di lavoro, un mondo in cui facciamo gli investimenti necessari a una crescita inclusiva». E qui tocca gli Stati: già in suo intervento sempre sul FT a inizio mese Gopinath aveva sottolineato la necessità di maggiori investimenti pubblici, purché indirizzati a «progetti di alta qualità, selezionati su basi concorrenziali e con grande attenzione a una allocazione efficiente delle risorse». Tradotto: mai come adesso sono improponibili gli sperperi. Ma il timore degli sperperi non può essere l'alibi per legare le mani agli Stati.

Il Fmi non ripeterà gli errori del passato. Il cosiddetto «Washington consensus» sulla necessità di politiche rigoristiche - che è stato il mantra dell'Occidente dagli anni '80 in poi - e le scelte fatte dopo il disastro del 2008 rappresentano una montagna di putridume alle narici della generazione Gopinath, anche se lei lo dice con più garbo: «Ora c'è consenso sul fatto che lo stimolo economico è stato interrotto troppo presto dopo la crisi finanziaria. Ed è un errore che non vogliamo rifare».

"Il debito non sempre semina distruzione". Questa è la frase chiave. Ma tranquilli, Gopinath la spiega bene: «Una lezione importante che abbiamo imparato dalla crisi finanziaria è che la politica fiscale (le scelte di bilancio degli Stati) hanno un ruolo essenziale nella ripresa. E ogni aumento del debito non getta i semi della distruzione». Prima che venga un colpo a chi si sia appena iscritto a un webinar sull'eredità di Wolfgang Schäuble, l'economista aggiunge: «Non che si debbano abbandonare le preoccupazioni sulla crescita del debito, su questo starei molto, molto attenta». E allora qual è il punto? Il punto è che il debito bisogna farlo con cognizione, «in modo sostenibile e con programmi a medio termine», «per creare lavoro e aumentare le attività economiche», perché il debito siffatto fa diminuire il debito complessivo in rapporto al Pil. Possono crescere entrambi, purché il Pil cresca di più. Ecco, questo è un debito che si può definire «prudente». Ma è un debito «essenziale», in un momento in cui «con i tassi d'interesse bassissimi per molto tempo, l'incertezza è tale da frenare comunque gli investimenti privati».

Ma un esempio concreto di debito "giusto"? «Al momento, la necessità immediata resta la spesa per la sanità, che assicuri una sufficiente produzione su scala di qualsiasi soluzione contro la pandemia, siano cure o vaccini». Ma Gopinath aggiunge che molti Paesi hanno anche la possibilità di affrontare la questione climatica, e che dovrebbero farlo in tre modi: «Investimenti pubblici verdi, disincentivi fiscali all'uso del carbonio e compensazioni per le famiglie a basso reddito in modo che la transizione non sia regressiva». Vuol dire, come abbiamo già scritto, che se i pannelli solari e le auto elettriche potranno permetterseli solo i ricchi (magari progressisti) e gli altri dovranno pagarsi di più il gasolio, la rivoluzione verde fallirà in partenza.

Ma questa dottrina non è troppo ottimistica? Non suona come il classico, e impossibile, «pasto gratis»? Gopinath ha la risposta pronta: «No, se facciamo le cose bene. Ci sono molti modi in cui i governi possono intervenire per ridurre le emissioni. Dobbiamo essere umili, c'è incertezza sui tempi della transizione ecologica, ma secondo noi può dare la spinta alla produzione che serve ora».

Intanto, occhio all’automazione. È da lì che può crescere l'ineguaglianza, su questo c'è più consenso che sui rischi della globalizzazione, spiega la studiosa. L'ineguaglianza è aumentata per vari motivi, su tutti «il declino nel tempo delle tasse progressive» (a questo proposito leggetevi cos’ha scritto Carlo Rovelli, se ve lo siete perso). Ma ora la pandemia «sta accelerando l'automazione» e questo rende necessarie «politiche su misura per i lavoratori espulsi». Come? Con una formazione che li aggiorni, e con la possibilità di «trasferirsi in regioni dove c'è più lavoro». Qui c'è un punto da chiarire: l'immigrazione è sempre stata una delle poche cose in teoria «di sinistra» predicate dal Fmi, in teoria perché la manodopera a basso costo piace alle imprese. Ma l'auspicio del Fondo, come ricorda la stessa Gopinath, si basava sull'assunto che la flessibilità dei mercati avrebbe garantito una circolazione indisturbata di capitali e lavoro: un assunto che non calcolava la variabile del rifiuto populista, scaturito dai costi di quella flessibilità. Di quei costi bisognerà tener conto.

Il momento giusto per il neo interventismo? A pandemia sotto controllo, nel 2021, «le economie più avanzate» potranno dare l'accelerata che serve agli investimenti pubblici.

Insomma, c’è un cambiamento nel pensiero economico dominante. E lo sta guidando il Fmi, già tempio dell'ortodossia rigorista contro cui marciavano gli studenti di tutto l'Occidente e ora motore di uno sviluppo vero, che sfami e non affami i popoli. Gopinath si prende questo ruolo senza remore: «Sì, stiamo guidando questi mutamenti ed è un compito che prendiamo seriamente. Dobbiamo dare i consigli giusti a ciascun Paese, ma tenendo conto del mondo nel suo complesso - abbiamo 190 membri - e delle ricadute da un Paese all'altro. La crisi ha confermato che c’è un bisogno enorme di un prestatore di ultima istanza, ed è il Fmi. In questa crisi abbiamo finanziato in varie forme 81 Paesi, 75 dei quali con interventi di emergenza che non hanno le condizionalità tipiche dei programmi del Fondo». Cioè le famose riforme strutturali, necessarie ma mal calibrate, che hanno colpito i ceti più deboli dei Paesi più deboli. Il mondo aveva bisogno di leader come Gita Gopinath. Finalmente sono arrivate.

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