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Il Coronavirus ha, in una parte del mondo, un concorrente
Alberto Pasolini Zanelli
Il Coronavirus ha, in una parte del mondo, un concorrente. Di conteggi dei morti in questi giorni se ne leggono due: quelli universali e quelli locali, al massimo regionali, in assenza di una dimensione geografica che consenta di parlare di “Paesi”. Quella che ancora una volta è in guerra, è la Palestina, patria degli entrambi nemici. Che sono tornati di nuovo a meritare questa definizione. L’ennesima guerra fra israeliani e arabi non si estende stavolta all’intero territorio ma, pur allargandosi ogni giorno, è ancora limitata. I due belligeranti non si sparano fronte a fronte, ma sembrano mirare, l’uno e l’altro, ai civili, gli ebrei della “fascia” attorno a Gerusalemme e i musulmani della Striscia di Gaza. I primi hanno più armi, gli altri assai meno, ma non mancano di aggressività. Gli arabi di Palestina hanno una sorta di governo, disarmato e privo di autorità, Israele è uno Stato completo, tranne che nelle dimensioni ma nelle sue strutture e principii: è guerriero, ma democratico, organizza elezioni in cui concede il diritto di voto anche a una parte degli arabi.
Ed è anche dalle urne che è nata l’ultima spinta alla guerra: il governo di Gerusalemme è guidato da tanti anni da uno statista famoso e contestato come Netanyahu, il più cauto fra i leader del Paese risorto. Nelle sue campagne elettorali come nella sua opera di governo egli non nasconde la sua decisione, fondandola anche su una Storia ormai millenaria e la intransigenza. La lunga tragedia del popolo ebraico l’ha colpito anche personalmente: un suo fratello è caduto in combattimento, tanti anni fa, durante un’azione contro un nucleo di terroristi. Anche per questo, ma soprattutto per la sua decisione di solito lucida, egli ha goduto finora dell’appoggio quasi incondizionato dell’America, repubblicana e democratica, innestata dalla lealtà al popolo ebraico con le sue tragedie, ma anche per la presenza di una minoranza attiva e colta e fino a ieri o ad oggi compatta. Nelle fasi di tensione come quella di oggi e nelle pause di riflessione e di trattativa. Guidate anche, più duramente, dal suo leader “falco” di ieri e di oggi. Anche i Paesi amici, i più fedeli come l’America, rispettano e accettano la sua intransigenza. Lo si vede anche dai risultati delle elezioni: Israele gode della simpatia della maggioranza dei democratici e dei repubblicani.
Almeno fino a ieri, fino allo scoppio dell’ennesima guerra fra le più inattese e dalle origini più complesse. Quella di cui si parla meno è la storia ormai lunga delle flessioni elettorali del partito di Netanyahu, che nelle ultime occasioni ha perso la maggioranza di cui aveva a lungo goduto. Non solo non ha più il primato assoluto, ma non arriva più, almeno finora, alla metà più uno della coalizione che egli guida. E di conseguenza corre il rischio di assistere alla creazione di un’altra maggioranza alternativa senza di lui e contro di lui. Per metterla assieme si dovrebbero “incollare” almeno una mezza dozzina di partiti della Knesset, di centro, di sinistra e anche di destra. Che però non paiono bastare, il che renderebbe necessaria la partecipazione di almeno uno dei partiti arabi presenti nella Camera. Sarebbe una novità, potrebbe aiutare nuove trattative per una improbabile pace, potrebbe (c’è chi lo spera) cominciare a smontare la truce macchina del terrorismo.
Ma Netanyahu legge in questa ipotesi anche il rischio che Israele debba fare concessioni, legali e territoriali, che secondo lui potrebbero mettere a rischio la patria ritrovata degli ebrei. Pericolo più grave, nei suoi calcoli, di quello, già in corso, di un rilancio di una guerra antica. Questo appare uno dei motivi della sua intransigenza e negatività ai progetti che qua e là spuntano dal conteggio dei morti, che sono quasi tutti arabi in conseguenza della diversa efficacia delle armi a disposizione. Una intransigenza forse comprensibile, ma che rischia di privare Netanyahu dell’appoggio più importante: quello degli americani. Non di Biden, che non perde occasione per ricordare la sua antica amicizia anche personale, ma di milioni di cittadini e, soprattutto per ora, di parlamentari. Repubblicani (che sono adesso all’opposizione e rimpiangono i toni di Donald Trump) e soprattutto democratici, tradizionalmente i più appassionati sostenitori di Israele, ma che oggi premono in maggioranza per la ripresa di trattative, anche internazionali, per rallentare questa cascata di morti, così come in tutto il mondo si lotta per alleggerire l’ondata delle vittime di un virus venuto dall’altro mondo.
Pasolini.zanelli@gmail.com
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