La lezione di Biden: il dovere dei partiti per il rilancio dell’economia
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero
Le cose possono cambiare in fretta, anche in politica. Solo tre mesi fa, il neo eletto presidente americano veniva presentato come un saggio nonno che avrebbe tentato, probabilmente con poco successo, di riunire la società americana dopo i quattro anni di Trump, adottando una strategia tradizionale e moderata.
Questa previsione è stata smentita su tutta la linea. In primo luogo sono stati decisi, o sottoposti all’approvazione parlamentare, programmi di spesa pubblica non solo inimmaginabili per dimensione, ma anche finalizzati alla diminuzione delle disparità sociali e, ancora più sorprendentemente, alla ricerca di un più attivo ruolo dello Stato nell’economia.
Questo deciso cambiamento di rotta non solo è stato fatto proprio dalla sinistra del Partito Democratico, ma è stato vigorosamente sostenuto dalla Segretaria al Tesoro Janet Yellen, persona molto competente ed altrettanto moderata. Janet Yellen ha sintetizzato il significato della rivoluzione in corso con l’espansione dei compiti dello Stato nell’economia, sottolineando che il governo deve, d’ora in poi, giocare un ruolo “più attivo e intelligente“. Un cambiamento molto evidente anche rispetto alla politica di Clinton e Obama ma, nello stesso tempo, in totale armonia con la linea dettata dal ristretto gruppo dei consulenti vicini al Presidente.
Come sottolinea il Financial Times, i membri del Council of Economic Advisers hanno scritto che l’aumento della produttività, su cui si gioca il futuro dell’economia americana, dipenderà soprattutto dalla misura dell’intervento pubblico che si concretizzerà in un grande progetto di infrastrutture e nella sinergia fra capitale pubblico e privato per il raggiungimento di nuovi obiettivi, a partire da quelli che riguardano l’ambiente.
A questi programmi si debbono inoltre aggiungere un aumento della spesa pubblica nell’istruzione, iniziando dalla scuola della prima infanzia e, infine, una nuova politica dedicata a combattere le diseguaglianze.
Si tratta non solo dell’abbandono della passata dottrina che si fondava su “meno Stato e meno tasse“, ma del superamento del riformismo limitato ad alcuni settori, come era stato impostato dai due precedenti presidenti democratici. La nuova tesi è che, con la maggiore presenza pubblica e con un serio intervento redistributivo, tutti staranno meglio, anche coloro che sono chiamati a pagare più tasse.
Non si è arrivati a rovesciare del tutto la dottrina precedente, ma è certo che, dopo essere vissuti per un lungo periodo di tempo nel quale l’obiettivo della politica economica europea era quello di diventare più americana, ci troviamo di fronte ad un messaggio che opera in senso opposto: ora sono gli Stati Uniti a volersi avvicinare a quello che avviene in Europa!
Naturalmente si tratta di una svolta ancora in una fase iniziale e vi sono anche in campo democratico voci contrarie, come quella del premio Nobel Summers, che sostiene che la ripresa dell’inflazione obbligherà Biden a frenare i grandi progetti di spesa pubblica.
È tuttavia degno di riflessione aggiuntiva il fatto che, proprio in questi giorni, sta diventando possibile un altro processo di avvicinamento fra le due sponde dell’Atlantico dato che, su entrambe le rive, si sta riflettendo sulla possibilità di imporre una tassazione minima per le grandi imprese multinazionali.
In questo caso possiamo anzi convenire che il compito di Gentiloni, paladino da parte europea nel sostenere che le imposte si pagano dove si formano i profitti e non dove l’impresa ha la sede legale, sia più difficile di quello di Biden, dati gli interessi di alcuni paesi europei a continuare ad essere paradisi fiscali.
Ci vorrà ancora molto tempo e molta pazienza per giungere a un accordo, ma il fatto che, dopo decenni di chiacchiere, se ne discuta in modo concreto e operativo, è un altro segnale del cambiamento dei tempi.
Se siamo probabilmente entrati in una svolta della storia dell’economia credo che, da parte italiana, sia necessario riflettere sul nostro ruolo e sui modi della nostra partecipazione a questi obiettivi.
Dobbiamo infatti avere ben chiare le prospettive, ma anche le difficoltà e gli ostacoli che si presenteranno lungo la nuova strada che dovremo percorrere.
È infatti evidente che, in questo grande dibattito finalmente aperto nelle democrazie occidentali, non può essere assente una approfondita riflessione italiana.
Una riflessione che deve trovare il suo svolgimento nello spazio dei prossimi mesi. Sia i conservatori che i riformisti che siedono in Parlamento debbono quindi prepararsi alle necessarie decisioni, partendo dagli obiettivi della NextGenerationUE.
Le proposte saranno in molti casi divergenti tra di loro perché diverse sono le posizioni che si confrontano nel mondo e all’interno del nostro paese, ma è certo interesse comune che le decisioni vengano prese non come sottoprodotto di strategie politiche di breve periodo o di attacchi personali, come sembra oggi avvenire.
I partiti politici non hanno solo la responsabilità di votare, ma anche quella di pensare e, dopo avere pensato e fatto pensare, di presentare un loro progetto sul futuro dell’Italia.
È troppo tempo che i partiti hanno rinunciato ad adempiere a questo loro compito.
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