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Libia: stiamo imparando la lezione?



Alberto Pasolini Zanelli
Una volta tanto Roma parla come Washington. E annuncia, fatte le debite proporzioni, una risposta conseguente a una minaccia. Riconosce, il governo italiano, che siamo sotto tiro dei “Califfi”, direttamente e non soltanto attraverso l’orrore e il caos dei profughi e dei naufraghi nel Mare Nostrum. L’hanno detto loro, chiaro: ci considerano un belligerante, un nemico. E noi rispondiamo che potrà rendersi necessario un impegno militare diretto. Poche ore prima dalla Casa Bianca è venuto l’annuncio di Barack Obama: la richiesta al Congresso di un’autorizzazione chiara e globale a combattere l’Isis con conseguente coerenza militare, cioè in tutte le sue branche regionali, dall’Irak alla Siria, dalla Nigeria alla Libia, dall’aria e dalla terra, con i drones, con i bombardieri, con i fucili dei marines.
L’idea non è nuova e non è di Obama. Il primo a suggerirla era stato un senatore repubblicano, Rand Paul, un “libertario” tenacemente contrario alle avventure militari che si era però convinto che in questo caso si deve agire e nella perfetta legalità. Il Congresso gli ha dato ragione e ora anche il presidente. Quello che resta da vedere è se alla chiarezza si accompagnerà la coerenza, degli Stati Uniti ma anche dei suoi alleati europei. Coerenza non soltanto nel muoversi tutti assieme, ma anche nel formulare una “dottrina”, anzi un codice, di azione credibile per alleati e nemici. E anche, forse soprattutto, il coraggio di riconoscere gli errori che hanno contribuito a rendere necessario un intervento bellico. Errori grossi e prolungati. Ce ne sono le prove, ogni giorno di più. Oggi che in Libia si è aperto un nuovo fronte nella guerra globale fra il più estremo fra gli estremismi islamici e il resto del mondo, occorre ripensare perché in Libia. E riandare a una memoria molto recente: a quando non su iniziativa americana e tanto meno italiana, ma prevalentemente francese o franco-britannica, l’Occidente scatenò una guerra contro il regime di Gheddafi a Tripoli, quello di un dittatore che da qualche tempo si asteneva da aggressioni all’estero, si era messo in riga sulla questione nucleare e mostrava di mantenere i patti. L’Occidente lo attaccò, distrusse il regime ed eliminò fisicamente l’uomo. E diede una spinta alla caduta della Libia nel caos, che non è cominciata ieri mattina ma il giorno dopo il linciaggio di Gheddafi in un angolo di deserto. Un’operazione cui gli Usa si erano uniti riluttanti (come del resto l’Italia) ma che riportava d’attualità l’intervento che George W. Bush fortissimamente aveva voluto contro l’Irak di Saddam Hussein, sormontando l’opposizione esplicita della Francia di Chirac. Una decisione, quella per Tripoli, che doveva aprire la strada a un’altra con un altro obiettivo: la Siria, stavolta, con una spintarella francese ma una piena partecipazione americana.
Washington riteneva necessario eliminare un altro dittatore, Assad, che da anni non partecipava direttamente a iniziative belliche al di là della sua frontiera. Venne a formularsi di nuovo, così, una dottrina che aveva avuto le sue radici mezzo secolo fa al tempo in cui il nemico numero uno era l’egiziano Nasser. Al Cairo la manovra aveva funzionato, in Libia era finita in disastro, in Siria andò peggio, va sempre peggio. Tre anni e mezzo di guerra civile in cui i ribelli sono appoggiati dall’Occidente, centinaia di migliaia di morti, più di un milione di profughi, un aumento della tensione in tutto il Medio Oriente. E soprattutto una trasformazione (o degenerazione) del conflitto. Assad ha resistito agli attacchi militari come alle pressioni politiche ed economiche, i suoi nemici hanno cambiato volto: i più temuti non sono più i ribelli della “primavera araba”, ma gli eredi di Osama Bin Laden, i terroristi ispirati da Al Qaida ma più estremi e più feroci. La “partita” per Damasco si gioca oggi fra un dittatore “laico” e un potere nazionalista e gli apostoli di un delirio jihadista nemico di tutte le nazioni arabe prima ancora che dell’Occidente. La Siria è il secondo atto del dramma libico, la Libia assomiglia sempre di più alla Siria, l’intero Medio Oriente è investito da un’ondata senza precedenti come estensione (inclusi anche una mezza dozzina di Paesi africani oltre che, naturalmente, le strade di Parigi), ma con precedenti numerosi, noti e imbarazzanti. A cominciare, per esempio, dall’Afghanistan. Vi nacque Al Qaida, la leggenda di Bin Laden appoggiato dagli americani, “padre” dei talebani. Che tornano, in proprio e anche come filiale dichiarata della setta dei califfi. L’Occidente continua a pagare un conto sempre più alto delle sue scelte così spesso errate e controproducenti in una così vasta area del mondo. E il cui motto dovrebbe ora essere: agire, ma prima riflettere.