Lo si era scritto un mese e mezzo
fa: la Libia era una crisi
dimenticata, oscurata dalla guerra in Ucraina e dalla missione contro lo Stato
Islamico in Siria e in Iraq. Eppure, a duecento miglia dalle coste italiane (e
quindi europee) c’era il rischio che i fondamentalisti del Califfo al Baghdadi
approfittassero del caos di uno Stato pressoché fallito: due governi, due
Parlamenti, due coalizioni eterogenee di milizie, due fronti internazionali di
sostegno, due parti in guerra, insomma, in un contesto in cui tutti i tentativi
di mediazione si erano rivelati sterili, se non fallimentari. C’erano tutte le
condizioni per poter attrarre lo Stato Islamico: un territorio sterminato, ricchissimo di petrolio e di gas (la Libia ha
le riserve di oro nero più grandi d’Africa), dai confini porosi, con un arsenale enorme. D’altronde, le brigate che
avevano combattuto Gheddafi non si erano sciolte, né avevano consegnato le
armi, ed era stato quello il primo, e principale, ostacolo su cui si era
arenato il progetto di ricostruzione. L'Occidente, dopo avere scalzato il
Colonnello, aveva fatto le valigie. Una guerra vinta dall’aria, e poi via. No
boots on the ground, per rendere stabile il quadro politico.
Altro fattore/calamita per il Califfato: la Libia
è il principale porto da cui partono i barconi di migranti che cercano di
raggiungere l'Europa mediterranea. Quindi non solo un traffico lucroso, ma la
minaccia di una bomba demografica lanciata sul Vecchio Continente. Ai cronisti
che gli chiedevano se non fosse il caso di ripristinare l’operazione Mare
Nostrum, viste le evidenti lacune della missione Triton, Matteo Renzi qualche giorno fa ha risposto: «Il problema non è Triton, è la Libia». Lo stesso
inviato Onu nel Paese africano, lo spagnolo Bernardino León, lo ha riconosciuto: «In Libia la situazione può diventare terribile come in Iraq e in
Siria. La differenza è che lì ci troviamo ad alcune miglia dall’Europa».
Insomma, la tanto evocata Somalia sul Mediterraneo.
L’escalation del conflitto
Che cosa è successo dall’inizio dell’anno? Mentre
il dialogo tra le parti avanzava troppo timidamente – i due fronti si sono
riuniti a Ginevra, ma il Congresso di Tripoli ha boicottato le trattative,
prima di ottenere un nuovo round di incontri in patria, a Ghadames – lo Stato
Islamico, terzo incomodo, si espandeva. Non solo Derna, tradizionale roccaforte
dei jihadisti, nell’Est, dove il Consiglio della Shura ha giurato fedeltà al
Califfo, ma Sirte (città natale di Gheddafi, in cui i miliziani hanno occupato
due stazioni radio) e soprattutto Tripoli. Il 13 novembre 2014 lo Stato
Islamico ha rivendicato un attentato contro le ambasciate di Egitto ed
Emirati Arabi, i padrini di uno
dei due governi (quello di Tobruk, più legittimato dalla comunità
internazionale e legato alla House of Representatives eletta a giugno 2014). Ma
il vero turning point è stato il 16 gennaio di quest’anno, quando gli uomini di al Baghdadi hanno fatto
irruzione in uno degli alberghi più noti della capitale, l’Hotel Corinthia, frequentato da uomini d’affari e diplomatici
stranieri, uccidendo dieci persone, comprese tre guardie. Tripoli da qualche
mese è in mano alle milizie dell’Operazione Alba, prevalentemente, anche se non
esclusivamente filoislamiche. L’IS contro le brigate islamiste, dunque, a tal
punto che lo stesso Omar al Hassi, premier del secondo governo, quello della
capitale, è stato bollato come murtadd, apostata, un appellativo riservato
anche alle guardie del Corinthia, considerate nemiche del califfato.
Non è facile definire la consistenza numerica
dello Stato Islamico in Libia. Nell’era del terrore in franchising, il brand
dell’IS in questo momento è il più forte nella galassia islamista. Ha
spodestato al Qaeda. È il capofila della jihad globale. Come ha notato Maurizio Molinari nel suo ultimo libro, “Il Califfato
del Terrore”, le uniche eccezioni
sono gli shabaab somali e i talebani: altrove i gruppi combattenti hanno
proclamato lealtà ad al Baghdadi. Così anche in Libia, sede di una miriade di
brigate, scaturite dal vuoto dell’autorità statale ed alimentate da armi
facilmente disponibili, molti miliziani hanno aderito al Califfato. Lo Stato
Islamico è arrivato a Tripoli e negli ultimi giorni il livello di guardia è
salito: ogni occidentale è un potenziale bersaglio, per cui gli italiani stanno
evacuando la Libia e la nostra ambasciata, unica rimasta aperta, ha “sospeso le
attività”. Baghdadi ha poi alzato l’asticella dello scontro con l’Egitto. I
cristiani egiziani sono finiti nel mirino dei sequestratori legati al Califfo.
Le immagini della decapitazione di ventuno copti, rapiti a Sirte, sono storia
recentissima.
Lo Stato Islamico vuole conquistare Tripoli, ma
soprattutto ha messo gli occhi sul petrolio. A inizio febbraio gli uomini del
califfato hanno assalito un’installazione della Total a Mabruk, uccidendo nove guardie e sequestrando tre
lavoratori filippini. Sirte e Nufaliya, piccola città conquistata la settimana
scorsa, sono in una posizione strategica sulla rotta verso i porti petroliferi,
come Es Sider e Ras Lanuf. Dall’entroterra desertico l’IS sta quindi procedendo
in direzione della costa. Che fare? Al Sisi, che aveva bombardato le postazioni
islamiste la scorsa estate, in sostegno a Tobruk e all’operazione Dignità,
condotta dal generale Khalifa Haftar – missione lanciata in maniera autonoma
nel maggio 2014, ma che sinora non ha ottenuto risultati - , ha già risposto
colpendo alcuni siti dello Stato Islamico a Derna, mentre i libici suoi alleati attaccavano a Sirte
e a Ben Jawad. L’Egitto, assieme alla Francia, ha poi chiesto una convocazione
del Consiglio di Sicurezza per affrontare la questione libica, reclamando, in
sostanza, un pieno mandato Onu per agire.
Il ruolo dell’Italia
E qui entriamo in gioco noi. Negli ultimi giorni
si è assistito a un atteggiamento piuttosto muscolare da parte di alcuni
ministri, come se un’azione militare fosse imminente. «L'Italia è pronta a
combattere in un quadro di legalità internazionale» dice Paolo
Gentiloni. «Ne discutiamo da mesi, ma ora l’intervento è urgente», gli fa eco Roberta
Pinotti, che in un’intervista al Messaggero ha parlato di una missione
«significativa» e «impegnativa». Renzi, invece, ha ribadito la cornice
dell’(eventuale) operazione, ossia un mandato Onu, ma è stato più prudente:
«Non si passi dall'indifferenza all'isteria irragionevole. La situazione è
difficile, però la comunità internazionale ha tutti gli strumenti per
intervenire. In Libia non c'è una invasione da parte dello Stato islamico,
alcune milizie che già agivano nel Paese hanno iniziato a farvi riferimento».
La posizione dell’Italia negli ultimi mesi è
stata sempre la stessa: sì a un intervento, ma dopo avere risolto la questione
della legittimità, ossia in seguito a un accordo tra le parti in guerra, e
dietro mandato internazionale. Nel 2011, dopo una risoluzione Onu sullo
stabilimento di una no fly zone, interpretata in maniera allargata, si
intervenne sostanzialmente per abbattere Gheddafi, quindi per un regime change
(ci si schierò con uno dei due fronti in lotta). Qui la situazione è diversa:
bisogna favorire un’intesa tra i due governi e le rispettive milizie (nonché i
rispettivi padrini) e poi schierare un’operazione di peacekeeping.
L’avanzata dello Stato Islamico, da una parte,
potrebbe paradossalmente accelerare un accordo tra la parti - per entrambi l’IS
è un nemico – ma i primi segnali non sono positivi: Tripoli ha reagito male ai
bombardamenti di Al Sisi (Presidente Egiziano) e di Tobruk contro lo Stato
Islamico, parlando di «violazione della sovranità della Libia». Dall'altro, la
missione di peacekeeping diventa ancora più rischiosa: Daniele Raineri,
giornalista del Foglio, sostiene ad esempio che la presenza di soldati
occidentali sarebbe un magnate per i jihadisti. La Pinotti, nella stessa
intervista, ha fatto cenno a truppe di terra - «Dipenderà dallo scenario»
- e se si vuole raggiungere uno degli obiettivi indicati dal ministro
della Difesa - «anestetizzare realtà dove ci sono infiltrazioni
terroristiche» - i bombardamenti aerei non bastano.
Due governi, niente intervento.
In ambito Onu c’è l’incognito del voto di Cina e
Russia, con Putin, nuovo alleato dell’Egitto, che si è schierato con
Tobruk. Il cui ministro degli Esteri, Mohamed Adbulaziz, a sua volta, la
settimana scorsa è volato a Mosca per incontrare alcuni rappresentanti del Cremlino.
Ma anche l’idea di una delega all’Egitto della pratica Isis non può essere
risolutiva, né si capisce, al momento, la portata delle operazioni di al Sisi.
La Francia, che si è subito schierata con la richiesta egiziana, da tempo
valuta un intervento in Libia contro la jihad. Il punto, però, è un altro.
Nessuna missione può essere efficace se non è preceduta dalla stabilizzazione
del quadro politico, ossia da un governo di unità nazionale preceduto da un
cessate-il-fuoco, come vorrebbe l’Italia e come sta cercando di fare Leòn. I
colloqui sono difficili, i fronti eterogenei, le milizie troppo potenti. Ma non
c’è alternativa. Lo ha scritto anche il New York Times, in un suo
editoriale: «I libici, che si
combattono dalla fine della guerra a Gheddafi, devo riconciliarsi e cominciare
il processo di costruzione di uno Stato. Il tempo è limitato, l’Occidente e i
leader regionali devono fare loro pressione, offrendo incentivi. Se i
combattimenti continuano, il Paese verrà diviso e l’economia collasserà». Dopo,
soltanto dopo, si comincerà a discutere di strike aerei e di boots on the
ground.