Alberto Pasolini Zanelli
L’Europa, il Medio Oriente, il
mondo si sfregano gli occhi dopo avere scoperto, con un ritardo non interamente
giustificabile e forse addirittura colpevole, di trovarsi in mezzo a sette o
otto guerre. E, quel che è forse peggio, senza sapere chiaramente chi è il
nemico, da dove viene e dove vuole andare. Il nemico numero uno è,
naturalmente, quello che in linguaggio diplomatico si chiama “terrorismo di
matrice islamica”: quello che assassina in Danimarca, minaccia l’Italia, taglia
gole in metà del pianeta. Ma al di là delle immagini e delle definizioni, c’è
urgenza di reagire e, ancora di più, di capire. Una risposta unitaria è
necessaria quanto difficile, data da un lato l’urgenza e dall’altro l’estrema
eterogeneità delle minacce e degli eventi. Ciò rende inevitabile il ricorso ai
precedenti e ai paragoni, più o meno contraddittori e spesso surreali. La
somiglianza più evidente, che dovrebbe essere addirittura scontata, è quella
fra la Libia e la Siria. Tripoli dopo la cacciata
e l’ “esecuzione” di Muhammar Gheddafi è quello che Damasco rischia da tre anni
di diventare: la dissoluzione di uno Stato che apre un Paese al caos del
terrore, alla distruzione di tutto, compresa l’identità concreta dei
belligeranti. La Siria
non è ancora come la Libia
perché, fra l’altro, Gheddafi è morto e Assad è vivo e il delirio del terrore
jihadista e “califfale” incontra degli ostacoli concreti che “indigeni”, ben
diversi dalle brigate internazionali raffazzonate secondo schemi pseudo
ideologici e improvvisati.
L’Occidente comincia così a
comprendere, anche se non ancora ad ammettere, che il regime siriano,, che
nella vulgata è all’origine della
guerra, è stato finora in realtà un argine al dilagare del caos e al trionfo
vitale del delirio. La sua ondata non ha trovato resistenza tra Tripoli e
Bengasi perché ha incontrato il vuoto, non lo ha creato. Eliminato il dittatore,
è scomparso anche lo Stato, subito e non per decisione di qualche Califfo. Non
c’erano che delle rovine da dipingere di nero. I “rivoluzionari” di tre anni e
mezzo fa hanno vinto soprattutto per il massiccio appoggio dell’Occidente, di
leader come Sarkozy e Cameron che hanno agito per motivi non ancora del tutto
chiari, trascinando alla fine alleati riluttanti come gli Stati Uniti di Obama
e l’Italia di Berlusconi. L’assalto alla Siria è stato spalleggiato fin dal
primo giorno dai medesimi statisti e “ideologi”, che hanno creduto di poter
ripetere la “formula Libia” ma hanno evidentemente sbagliato i conti dopo tre
anni e mezzo, fra duecentomila e trecentomila morti, profughi e rifugiati al di
sopra del milione, le posizioni di partenza sono rimaste quelle, perché il
regime di Assad ha resistito. I punti cruciali delle ostilità non si sono spostati.
Quello che è cambiato è che i deliranti sostenitori del Califfato hanno a poco
a poco preso il posto dei “riformatori”, dei separatisti curdi o di altre “sette”
e hanno addirittura fruito per qualche tempo dell’appoggio di potenze europee i
cui governi non capivano o si rifiutavano di capire, in omaggio alle nostre
ideologie e, forse, a qualche interesse concreto.
Gli Stati Uniti sono stati
addirittura sul punto di intervenire militarmente in prima persona. Lo ha
scongiurato soltanto una non disinteressata deviazione russa, curiosamente
coincidente con gli sviluppi di una nuova ostilità fra Mosca, l’America e
l’Europa. Contemporaneamente alla Siria, si cominciò e si continua a combattere
anche in Ucraina e le alleanze che non si vedono sul terreno si delineano sul
“fronte” di sanzioni economiche.
Cosa c’entra Kiev con Tripoli?
Niente, se non fosse che entrambe queste sfortunate capitali sono collegate con
Damasco. Queste guerre sono anche guerre di paragoni. Esperti rispettati e
famosi arrivano ad avanzare una tesi: che l’“Ucraina non può trasformarsi in
una Siria e la formula da applicare consiste essenzialmente nel ritiro dei
russi e del recupero da parte ucraina del controllo alla frontiera orientale.
Il paragone più logico parrebbe un altro: è la Siria che corre il rischio di trasformarsi in una
Libia. I vicini se ne sono accorti. Per esempio l’Egitto che con entrambe le
aree in guerra, confina e che ha preso iniziative che non sono “ideologiche” ma
di elementare, pressante autodifesa da patte della nazione più popolosa del
Medio Oriente che ha appena provato sulla sua pelle i frutti del sogno della
“primavera araba”.