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La morte di Boris Nemtsov




Alberto Pasolini Zanelli
La tentazione è forte, soprattutto per i più recisi oppositori di Putin, di paragonare la morte di Boris Nemtsov a quella di altre esponenti delle opposizioni nelle dittature di cui abbondò il ventesimo secolo. In Italia, per dirne una, a Giacomo Matteotti. È bene tuttavia riflettere in modo da rendere più fondati i sospetti ma anche le fievoli alternative presentate subito dal Cremlino. Che però difficilmente convinceranno coloro che si sono rifatti fin dal primo annuncio del criminale omicidio al tema dominante nella politica russa degli ultimi due anni, particolarmente nel settore estero. Troppi indizi si appuntano sull’Ucraina, il più immediato la coincidenza fra una manifestazione contro la linea del presidente in Ucraina e la “eliminazione” fisica del principale fra gli oratori in cartello. Nemtsov doveva guidare una marcia sotto le mura del Cremlino e chi lo conosceva non dubitava che le sue parole sarebbero state molto dure. Già in una recente intervista egli aveva definito “folli” le iniziative di Putin e si era spinto fino ad esprimere apertamente il suo timore: “Ho paura che Putin voglia la mia morte”.
E la morte è venuta per mano di quattro killer in pieno centro della capitale. Non erano mascherati e questo indebolisce l’unica ipotesi alternativa: quella di un ennesimo crimine dei seguaci del Califfato o di altri gruppi jihadisti. Gli assassini erano russi, dalla faccia russa scoperta e ciò ha indotto, od obbligato, Putin a rispondere senza insinuazioni e ad avocare a sé, come garanzia, le indagini subito avviate con la massima urgenza, contemporanee alla grande manifestazione di protesta, autorizzata e organizzata dal comune di Mosca. Cui partecipano non solo i seguaci di Boris Nemtsov, ma tutte le organizzazioni dell’opposizione “liberale”: un “fronte ampio” più folto del consenso elettorale diretto del partito fondato e guidato da Nemtsov sotto il nome di “Fronte di destra”, sei milioni di voti. A condividere idee e proposte di Nemtsov erano e sono quasi tutti coloro che avevano seguito Boris Eltsin nell’operazione di rottura dell’Unione Sovietica e nello scioglimento del Kgb e in un programma di liberalizzazione e privatizzazione della società russa, che valse a Eltsin e a Nemtsov elogi persino da parte di Margaret Thatcher.
La vittima del terrore delle ultime ore era stato anche vice primo ministro russo sotto la protezione di Eltsin ma anche con l’appoggio di nostalgici del riformatore Gorbaciov. A spezzare questa sentenza fu l’avvento di Putin (scelto e nominato dallo stesso Eltsin) ma soprattutto dalla crisi economica della Russia del 1998 con il crollo del rublo e con la richiesta popolare per un ritorno a un governo forte. Una prova che Putin aveva fino a poco tempo fa superato con successo, anche se a prezzo dell’indebolimento delle recenti istituzioni democratiche e delle buone relazioni con l’Occidente. Ancora oggi l’“uomo forte” gode dell’appoggio della maggioranza dei russi. I seguaci di Nemtsov non sono neppure il principale partito di opposizione nelle urne, che restano i nostalgici del comunismo, che però sono il “peso morto” della politica di Mosca e non sono latori di nessuna proposta alternativa.
I “liberali” lo sono stati, anche se divisi sul piano organizzativo e di conseguenza deboli nell’arena parlamentare. È su di loro che, anche ed anche per questo, si è abbattuta la più dura repressione: legale nel confronto propriamente politico, violenta e antidemocratica in altri confronti, compresi episodi inquietanti. Boris Nemtsov non è il primo esponente dell’opposizione ad avere fatto “la fine di Matteotti”. Gli altri sono stati, è vero, esponenti dell’ondata di arricchimenti più o meno improvvisi seguiti allo smantellamento del sistema sovietico. Tutti si ricordano di Aleksandr Litvinenko, ucciso a Londra mediante un’iniezione di materiale nucleare, di Sergei Magnytski, un avvocato morto in carcere, della giornalista Anna Politkovskaja, “eliminata” mentre conduceva investigazioni collegate anche al conflitto in Cecenia. La Siberia ha “ospitato” a lungo Mikhail Khodorkovsky, il più noto in Occidente fra gli “oligarchi” rivali di Putin e da lui perseguitato.
Le tensioni di oggi sono di gran lunga più aspre, soprattutto nelle relazioni internazionali. Non si tratta più soltanto di “dissidenti” o di “concorrenti. Il fantasma di una rinnovata Guerra Fredda si leva da tempo, prima ancora dello scoppio della crisi in Ucraina e si addensa di giorno in giorno. Una “guerra russa” fa da allarmante contraltare delle atrocità nel Medio Oriente. In Occidente predominavano i “falchi” già prima che il brutale omicidio di ieri gli fornisse un motivo morale più grave di ogni considerazione politica e della stessa “guerra economica” che ne consegue. Quale sia la reazione dell’Occidente lo dimostrano le dichiarazioni dei suoi leader, primo fra tutti Barack Obama: di condanna di un “malvagio e brutale assassinio” accompagnato da un invito a indagini “oneste”. Le espressioni più “forti” nel lessico fra i leader di due grandi potenze non in guerra.