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Di rado l’Italia ha occupato tanto posto nelle pagine editoriali dei giornali stranieri



Alberto Pasolini Zanelli
Di rado l’Italia ha occupato tanto posto nelle pagine editoriali dei giornali stranieri, in particolare americani. È stato l’esito del tanto atteso referendum a sorprendere e a indurre a reazioni e giudizi precipitati e sovente contraddittori. Con qualche giustificazione, dal momento che la politica italiana è approdata da qualche anno, a orecchie e a menti straniere, a ereditare la definizione un tempo coniata per l’Unione Sovietica, cioè un “mistero avvolto in un enigma”. È colpa del vocabolario e della sintassi tradizionale dei nostri politici, così diverso da quello americano, volto almeno in teoria a prediligere la chiarezza, anzi la “trasparenza”, un valore che Oltreoceano troppo spesso prevale sull’altro, preziosissimo per la libertà, che è la “privacy”.
Questa volta, però, gli italiani hanno parlato in numeri e non in parole e quindi sono stati chiari, comprensibili, “populisti”. E soprattutto “europei”. Non magari nei loro sentimenti attuali nei confronti di una burocrazia opaca scaturita dall’euro, ma perché i loro sentimenti e la direzione del loro voto è in questo momento in perfetta armonia con quello degli altri Paesi europei. In forma semplicistica, in direzione sgradita agli altri governi della nostra “superpatria” ma in concordia con i governati. Quello che è accaduto dalle Alpi al Lilibeo è coerente, univoco con quello che emerge da tutti i test politici, dalla Grecia al Circolo Polare Artico: la protesta, causata e dunque giustificata da una crisi reale, grave e prolungata, meno lenita che aggravata dalle misure politiche per combatterla. Nel nostro caso ci sono evidentemente anche fattori particolari e personali, che hanno un colorito aggiuntivo ma nulla tolgono alla “comunalità” negli umori europei, come rivelato anche da un dato che potrebbe essere sorprendente ma non lo è: l’area a produrre più “sì” alla riforma del Senato e alla personalità di Renzi è stata la provincia di Bolzano, l’unica in Italia a maggioranza etnica tedesca. Che si manifestano a volte anche nelle strade ma soprattutto con coerenza geografica dentro le urne e nelle reazioni dei politici ai risultati. Non è un caso che le dimissioni annunciate dal nostro premier in conseguenza della sconfitta referendaria sono quasi cronometricamente contemporanee a quelle del primo ministro francese Vals, succedono di pochi giorni all’annuncio che il presidente Hollande non si ripresenterà alla prova elettorale e di qualche settimana all’analoga decisione del britannico Cameron. Dei Quattro Grandi dell’Europa, tre hanno gettato di recente la spugna, a Londra, a Parigi e a Roma. Se vogliamo aggiungere la Spagna, dobbiamo ricordare che a Madrid una fila di mesi senza governo ha prodotto un governino provvisorio di minoranza.
Sei mesi fa si tenne ad Hannover una sorta di “vertice” di emergenza a cinque, convocato e diretto da Barack Obama. Una sorta di élite dell’Occidente. Il mese prossimo se ne andrà in pensione anche Obama, che si sta impegnando a fondo per fare coraggio ai suoi soci di allora, ma soprattutto facendo loro paura nelle conseguenze che egli teme se le cose continueranno ad andare così. Egli teme che si stia creando un vuoto e che possano scaturirne decisioni rovinose. Che egli teme più di quanto possano essere inefficaci le soluzioni eternamente provvisorie negli ultimi otto anni, il continuo ricorso a governi “tecnici” senza comunicazione con la gente.
In Europa, un po’ ovunque (contemporaneamente a Renzi e a Vals si è dimesso anche il primo ministro neozelandese), ma anche e soprattutto in America. La vittoria di Donald Trump, da quasi nessuno prevista, non cessa di fare paura all’establishment Usa. Un brivido di panico, una sterile ripetizione del “ve lo avevamo detto noi” emerge ad ogni nomina che il presidente eletto decide per formare non solo il governo ma tutto lo strato dirigente di Washington. L’ultima reazione è suscitata da una scelta innocente come quella di Carson, un neurologo di pelle nera, a gestire gli affari nei centri urbani. Ostilità e timori si levano ogni giorno ad accompagnare i nomi di candidati vecchi e nuovi, da Rudy Giuliani a Mitt Romney, ad almeno tre generali che dovrebbero gestire il Pentagono. Senza calcolare recenti collaboratori di Trump, fra cui un genero molto ambizioso, vecchi repubblicani mescolati e in concorrenza con consiglieri estranei od ostili all’establishment fra cui alcuni esponenti dell’estrema destra. Anche e soprattutto in America, la protesta per la stagnazione economica (ristabilita a fatica dagli onesti sforzi di Obama, ma non c’è ancora il recupero della crescita) si mescola con una demoralizzazione di fronte a una crisi di valori nel creare un “fronte del no” che sta per insediarsi alla Casa Bianca, luogo da cui devono uscire i “sì”. È curioso osservare come l’opposizione più aspra, in termini spesso senza precedenti, venga dagli strati più colti oltre che più ricchi e più potenti di una di una democrazia solida e affermata come quella statunitense. Ostilità in parte comprensibile ma espressa in forma grezza e sempre più spesso riassunta nel termine “populista” dal significato non sempre troppo chiaro ma pur sempre negativo. Atteggiamento che si riflette anche nei giudizi sulle traversie dell’Europa, negli allarmi sull’Italia, nell’abbraccio sempre più stretto e quasi disperato con la Germania della Merkel, unica leader sopravvissuta. Negli eccessi di pessimismo ma anche nelle troppo rapide consolazioni. Come quel giudizio sull’elezione presidenziale in Austria: un sospiro di sollievo per la mancata vittoria del candidato “populista” interpretata come segno di un inizio di inversione di tendenza. Dimenticando che il candidato dell’estrema destra a Vienna ha ottenuto il 47 per cento dei suffragi. La stessa percentuale di Donald Trump in America.